giovedì 15 marzo 2012
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Il verbo «delegittimare» (ovvero «Priva­re di legittimità, sottrarre la legittima­zione a esercitare una funzione o un po­tere ») non era presente in uno tra i più dif­fusi e autorevoli dizionari della lingua ita­liana almeno fino al 1988. È entrato nel linguaggio comune, in dosi via via più massicce, a partire dalla metà degli anni 90, contestualmente all’esplosione trau­matica del conflitto tra politica e magi­stratura seguita a Tangentopoli (o, forse, dovremmo dire alla "prima Tangentopo­­li", viste le cronache giudiziarie degli ulti­mi mesi). Per amore di verità, sarebbe più giusto parlare di conflitto tra una parte della politica e una parte della magistra­tura. Comunque sia, da allora l’Associa­zione nazionale dei magistrati e, non di rado, consiglieri "laici" e togati del Consi­glio superiore della magistratura, hanno gridato al rischio di «delegittimazione» delle toghe. Talvolta con evidente ragio­ne, tal altra con altrettanto solare slancio corporativo. Ciò non è accaduto nel caso di Francesco Iacoviello, il sostituto procuratore gene­rale della Cassazione che la scorsa setti­mana ha chiesto e ottenuto dalla suprema Corte l’annullamento con rinvio, per vi­zio di motivazione, della sentenza di con­danna per concorso esterno in associa­zione mafiosa del senatore del Pdl Mar­cello Dell’Utri. Eppure Iacoviello, per quanto ha sostenuto nella sua appassio­nata requisitoria, è stato duramente at­taccato. Non soltanto da ex-pm passati al­la politica, ma anche da suoi colleghi tut­tora in servizio, personalmente risentiti perché quella requisitoria mette in di­scussione un certo modo d’indagare e di giudicare. E sì che, a leggerla, non esclu­de affatto l’eventualità che l’indagato sia colpevole. Del resto, in Cassazione si di­scute dei processi sotto il profilo della le­gittimità e non del merito, come tutti san­no, tranne forse qualche nostro collega i­scritto all’Ordine dei Giustizialisti, più che altro disturbato dal fatto che probabil­mente, grazie alla prescrizione, il "nemi­co" la farà franca. Fatto sta che il sostituto pg è stato accu­sato perfino di avere oltraggiato la me­moria di un martire civile come Giovanni Falcone. Ed è stato detto che in passato «per molto meno» il Csm ha deliberato sanzioni disciplinari. Può darsi. Di certo, anche in tempi recenti, per molto meno il Csm ha aperto pratiche «a tutela» del ma­gistrato attaccato. Stavolta no. Stavolta è stato il procuratore generale della Cassa­zione Vitaliano Esposito (quindi il capo dell’ufficio di Iacoviello), dal mese prossi­mo in pensione, a doversi spendere in di­fesa del collega. Lo ha fatto ieri mattina, proprio in apertura dei lavori del plenum del Consiglio superiore, chiedendosi se «la libertà di espressione possa estendersi fi­no al vilipendio del magistrato e se sia pos­sibile tentare di condizionare l’esercizio della giurisdizione». È seguito un dibatti­to, nel quale tutti i gruppi hanno espres­so solidarietà al sostituto pg. Ma nessuno ha sollecitato l’apertura di una pratica a sua tutela, cioè a tutela della sua autono­mia e della sua indipendenza. E, di rim­balzo, di quelle dei giudici che, autono­mamente e indipendentemente, hanno ritenuto valide le sue richieste. Più tardi, in compenso, il plenum è tornato a suo­nare l’allarme sull’indipendenza dell’or­dine giudiziario tutto, che sarebbe messa a rischio dalla norma sulla responsabilità civile al vaglio del Parlamento. Ancora una volta la cronaca fornisce un paio di elementi preziosi per un approc­cio più equilibrato, oseremmo dire più lu­cido, alle vicende giudiziarie che riguar­dano esponenti politici. Il primo è che sba­gliano coloro che appiccicano etichette e colori alle toghe: il dottor Iacoviello pro­viene dal "Movimento per la Giustizia", u­na delle correnti storiche della sinistra giu­diziaria; il fatto che un giudice abbia un’i­dea politica non vuol dire necessaria­mente che sia politicizzato. Il secondo è che nessun magistrato è meno "autono­mo, indipendente e soggetto soltanto al­la legge" di altri (magari mediaticamente dominanti).
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