Le commemorazioni degli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 hanno rilevato il senso storico dell’evento: quella giornata ha cambiato la nostra visione del mondo, provocando una svolta nelle relazioni internazionali. Uno dei suoi effetti più visibili ha investito il rapporto tra migrazioni dall’estero e sicurezza interna, innescando un irrigidimento dei confini e una diffidenza istituzionalizzata verso gli immigrati. In realtà tuttavia gli attacchi hanno impresso un’accelerazione a una tendenza già apparsa verso la fine del secolo scorso.
Fino agli anni 70 del Novecento nell’Europa centrosettentrionale la gestione dell’immigrazione era ricaduta sotto le competenze dei Ministeri del Lavoro e dell’Industria, ma cominciò una transizione verso i Ministeri degli affari interni. Anche a livello di istituzioni comunitarie, dagli anni 90 il dossier immigrazione è gestito da quella che oggi si chiama 'DG HOME'. Di certo gli attentati del 2001 e quelli perpetrati negli anni successivi sul suolo europeo hanno influito profondamente nel configurare l’immigrazione come un problema di 'sicurezza nazionale', collocando in primo piano la questione dell’immigrazione non autorizzata. La percezione di un Occidente sotto attacco ha inciso anche a livello culturale. I maltrattamenti dei richiedenti asilo sul confine greco o su quello croato, la loro espulsione verso la Bosnia, la libertà d’azione lasciata all’agenzia Frontex sono vicende emblematiche che mostrano come i mezzi impiegati per contrastare l’immigrazione indesiderata possono entrare in contrasto con i diritti umani fondamentali. Non sembra, però, che oggi tale problema disturbi molto i governi interessati e buon parte dell’opinione pubblica. Se una maggiore efficienza nella repressione dell’immigrazione povera comporta un sacrificio sul piano dei valori liberali, i governi e gli elettori non paiono nutrire troppe remore ad accettare lo scambio.
Sono anzi sottoposti alla pressione di forze politiche ancora meno disposte ad accettare vincoli umanitari rispetto al controllo dei confini. Nello stesso tempo, tuttavia, la globalizzazione esercita pressioni contrastanti. Attività come il turismo, il commercio internazionale, gli scambi culturali militano attivamente contro la chiusura delle frontiere. Anche in Italia e nella Ue, l’abolizione dell’obbligo di visto per gli ingressi turistici a favore dei cittadini di molti Paesi del mondo – dal Brasile all’Albania, dall’Ucraina alla Moldavia – rivela le incongruenze della riaffermazione dei confini in un mondo globalizzato.
Per alcuni il nesso tra attraversamento dei confini e problemi di sicurezza non vale, mentre per altri è affermato con dovizia di strumenti normativi, risorse tecnologiche e investimenti economici. La selezione, esplicita e implicita, dei candidati all’immigrazione su basi geopolitiche è un’altra tendenza accelerata dagli attacchi dell’11 settembre.
Ciò significa però che sotto questo aspetto il terrorismo ha raggiunto quasi ovunque un obiettivo essenziale: dividere nettamente 'noi' e 'loro', impedire mescolanze e transizioni, cristallizzare le appartenenze religiose e culturali. Il cosiddetto 'scontro di civiltà', che trova nella gestione degli ingressi la sua espressione più pervasiva, ha coinvolto milioni di persone del tutto prive di rapporti con gli attacchi omicidi e di legami con i responsabili. Bloccati nelle loro aspirazioni di mobilità e miglioramento, come pure nelle loro necessità di fuga da guerre e repressioni, difficilmente coltiveranno sentimenti più amichevoli verso l’Occidente.
La selettività derivante dal binomio immigrazione- sicurezza deborda inoltre dall’orizzonte geopolitico a cui si appella. Come mostra in modo emblematico il confine meridionale degli Stati Uniti d’America, pacifici lavoratori di origine latinoamericana hanno pagato con accresciute restrizioni e massicce espulsioni il conto degli attentati commessi da professionisti benestanti provenienti dall’Arabia Saudita. Il terrorismo ha fornito una potente giustificazione per l’innalzamento di barriere più irte e impenetrabili tra i Paesi sviluppati e la componente povera dell’umanità.