giovedì 12 settembre 2013
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Nonostante qualche breve dilazione ottenuta dai pressanti appelli alla concordia provenienti dal Quirinale, allo stato delle cose sembra assai difficile che la rotta di collisione tra i due maggiori partiti della maggioranza eviti di concludersi con uno scontro irrimediabile. Se non si cambia registro, il cozzo ci sarà, con un impatto disastroso sulla fiducia dei mercati come ha già sottolineato il ministro dell’Economia Saccomanni e hanno paventato sia Confindustria sia – e proprio su queste colonne – il commissario europeo Rehn. Ma tra gli effetti collaterali della "rottura" del processo di pacificazione politica su cui è (era...) imperniata l’azione del governo di Enrico Letta ci sarebbe il blocco, l’ennesimo blocco del processo di riforma (non solo) istituzionale. Nella situazione parlamentare attuale solo la convergenza tra le principali formazioni politiche può, infatti, produrre riforme complesse come quelle richieste per ridurre il debito pubblico attraverso la dismissione di patrimonio o per dare efficienza e capacità rappresentativa e decisionale a un sistema paralizzato. E manterrebbe la stessa criticità anche la situazione che prevedibilmente si verrebbe a creare in caso di elezioni anticipate, senza alcun dubbio se si dovesse tornare a votare con l’attuale Porcellum, probabilmente anche con un nuovo sistema (che, peraltro, non si sa chi sia in grado di approvare). Chi nel Pd punta a utilizzare la forza elettorale del Movimento 5 stelle in una prospettiva riformatrice, e che forse per questo non dà retta agli appelli del Colle per mantenere l’equilibrio di governo attuale illudendosi di poter dar vita comunque a una qualche soluzione di "cambiamento", dovrebbe esaminare con freddezza le posizioni di fondo del movimento di Beppe Grillo, tutte imperniate sul rifiuto delle riforme. È proprio lo spirito antiriformista che tiene insieme spinte differenti e talora contrastanti che confluiscono in un movimento che trova le sue ragioni nel rifiuto della democrazia parlamentare, inevitabilmente basata sui partiti ma anche nel rifiuto di alternative istituzionali di tipo presidenziale, al punto da contestare la gestione di questa funzione che già oggi fa Giorgio Napolitano. Il richiamo grillino ai "diritti del Parlamento", che non contempla mai il compito di costruire una maggioranza di governo, è in sostanza un appello all’assemblearismo, che non ha niente a che fare con la concezione costituzionale della funzione centrale delle Camere. L’altro elemento comune alle diverse anime del grillismo è il rifiuto dei vincoli internazionali, a cominciare da quelli europei, contestati alla radice e non per le piegature eccessivamente rigoriste che hanno assunto anche per effetto di un certo egemonismo tedesco, al punto da non accettare né la moneta né il sistema dei trasporti e di comunicazione integrato. La gazzarra messa in atto nell’aula della Camera da parte dei deputati del M5S in occasione della discussione del mandato alla Commissione per le riforme istituzionali ha dato la misura di questa complessiva ispirazione antiriformista, particolarmente pericolosa in una situazione in cui i meccanismi decisionali, istituzionali ed economici, richiedono un’urgente opera di ammodernamento e semplificazione per non cadere in una paralisi definitiva.Aspettarsi di trovare proprio da quella parte una sponda per un percorso riformatore è illusorio, ma sembra che settori del Pd, cioè proprio del partito che oggi esprime il premier, nutrano questa illusione e che quasi tutti in quei paraggi temano la concorrenza grillina sul terreno dell’antiberlusconimo e per questo si impegnino in una corsa per affrettate decisioni che possono avere effetti distruttivi su un quadro politico ampio e fragile, l’unico su quale oggi si possa ragionevolmente innestare un’azione riformatrice. D’altra parte, come ci ricorda un vecchio proverbio, tra i due litiganti il terzo gode, e il terzo è (o comunque è convinto di essere) proprio Grillo.
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