venerdì 1 luglio 2011
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Una delle notizie che tengono banco in questi giorni è quella relativa alla quantità della manovra economica finanziaria per il prossimo triennio: 47 miliardi di euro, milione più milione meno. Accompagnata da un’altra notizia: quella che il grosso dei tagli messi in programma (ma non definiti) dall’attuale governo farà sentire il proprio effetto solo dopo le prossime elezioni politiche generali. Chi potrebbe davvero tirare un sospiro di sollievo? I tempi stretti scelti da altri Paesi europei – anche più virtuosi del nostro – erano forse frutto di fretta o di improvvisazione?È ancora presto per dare un giudizio compiuto sulla qualità delle misure messe in cantiere e che si sommano o integrano o correggono quelle assunte negli anni precedenti da governi di due diversi colori. Anni di sacrifici, dal 2006 in qua. Eppure si è preso atto da tempo che non si stanno mescolando bene, e con la necessaria tempestività, tagli e investimenti. È evidente che non emergono priorità forti, chiare e impegnative, come si è già scritto su queste colonne indicando in una riforma fiscale amica della famiglia (e non nemica dell’impresa) il primo tra i necessari investimenti sul futuro. Neppure questa volta, nonostante gli impegni pre e post elettorali, il governo in carica sembra riuscire ad articolare adeguatamente questo mix (anche se una minima speranza resta aspettando la "carta" di un’annunciata legge delega sulle nuove tasse). Se ci basiamo sui trascorsi, visto che non conosciamo il suo assetto e i suoi programmi futuri, sappiamo però che non si sarebbe orientata a farlo neanche l’attuale opposizione di centrosinistra.Siamo di fronte a un problema politico, ma forse siamo di fronte a un problema non solo politico. Questa politica è solo una delle espressioni di un Paese che sempre più spesso si eccita per le alternative tra tutto e niente, e che inevitabilmente finisce con il rimandare tutto a dopo. Questa è la politica di un Paese che sempre più spesso non sa dire come. E allora dice: dopo.Il punto di partenza è sempre dato; la scelta del punto di arrivo è cruciale, ma non esime dalla dura fatica di capire e praticare un come. Il come è l’unica strada che porta da dove siamo a dove vorremmo essere. Il come nasce dalla fatica di combinare costi e benefici, non è mai semplice né semplicemente deducibile; non è mai infallibile, richiede di riflettere e di scegliere tra alternative. Per ogni come, dunque, c’è una responsabilità da assumere. Quello del come è sempre un affare moralmente rilevante.La fatica del dire come la si legge nella politica delle dilazioni (fotografata innanzitutto nelle dimensioni raggiunte dal debito pubblico), ma la si legge anche nel rapporto tra genitori e figli, tra insegnanti e studenti, tra medici e pazienti, tra professionisti e clienti, e anche altrove. Prima si cerca nella tecnica l’alternativa alla ineludibile responsabilità di una scelta, e poi si solletica la complicità di coloro di fronte ai quali invece si sarebbe chiamati ad assumere decisioni anche molto difficili.La fuga dal come è crisi di cultura, di autorità e di istituzioni, perché ogni responsabilità ha una forma sociale. Il come non è mai neutro. Bensì combina costi e benefici senza potersi affidare ad alcun pacifico automatismo. Il come non è mai laico. La scelta di comporre fattori che potrebbero sempre essere composti anche altrimenti impone opzioni di valore. Non per questo la scelta del come è necessariamente irragionevole o settaria. Ci sono infatti opzioni di valore che includono più di altre opzioni di valore, e ci sono opzioni di valore che escludono più che includere. (Per questo Benedetto XVI richiama continuamente il modello della libertà religiosa come sintesi impareggiata di identità e di inclusione.)Riconoscere che in politica, come in tanti altri settori della civitas, sono urgenti scelte gravi e dure e al tempo stesso impegnative e costruttrici di futuro significa riconoscere che a ogni livello e in ogni istanza c’è bisogno che si sappia assumere la responsabilità di proporre un come adeguato alla sfida e ai suoi tempi. A chi si assume la responsabilità di un come, in politica e altrove, è chiesto di mettere in gioco se stesso in una partita che può non avere un secondo tempo. E proprio perché richiede questa impegnativa combinazione di generosità e di distacco, la responsabilità politica veniva definita da Paolo VI una «altissima forma di carità».
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