giovedì 20 maggio 2010
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La Bangkok del sorriso, dei templi dorati e del turismo facile è lontana anni luce. Ora regna il caos. Anche se, dal punto di vista formale, la resistenza al governo di Abhisit Vejjajiva, iniziata il 12 marzo scorso, è ormai finita. La mobilitazione delle Camicie rosse s’era avviata come un pacifico sit-in. I sostenitori dell’ex premier Thaksin Shinawatra chiedevano lo scioglimento del governo di Abhisit, salito al potere non grazie al voto ma con un colpo di mano dell’esercito e dell’apparato giudiziario, che aveva messo fuori legge il partito pro-Thaksin netto vincitore alle elezioni. Per esprimere il loro sdegno, hanno usato gesti simbolici: sangue trasfuso dai manifestanti versato davanti al Parlamento e ai piedi dei militari; occupazione degli incroci principali del centro. Lunghe settimane di lotta, segnate da qualche vittima fra i soldati e fra i dimostranti, e con la condanna della violenza da entrambi i fronti.Il braccio di ferro – che colpiva gli uffici, le scuole, il turismo e l’economia del Paese – è sembrato virare a favore delle Camicie rosse il 3 maggio scorso, quando il premier ha annunciato un piano di riconciliazione che rispondeva a molte richieste dei manifestanti, fra cui le dimissioni dell’esecutivo e la chiamata alle urne. Ma è subito cominciato un triste gioco al rialzo: le Camicie rosse domandavano incolumità per loro e la prigione per Abhisit; il governo pretendeva lo sgombero totale del centro della capitale. Davanti alla radicalità delle richieste, Abhisit ha ritirato la sua proposta e da allora è partita l’escalation della resistenza e della violenza militare, accresciuta dallo sfilacciamento della leadership "rossa" divisa fra chi voleva la guerriglia e chi voleva tornare al dialogo. Fra i più decisi per lo scontro, il generale Kattiya, ucciso poche ore dopo la decisione di Abhisit. Alla sua morte è partito l’assedio, concluso ieri con l’uccisione di almeno 15 persone (compreso il coraggioso fotoreporter italiano Fabio Polenghi, caduto mentre documentava la repressione) e il ferimento di altre centinaia. In due mesi di proteste vi sono stati 80 morti e oltre 1.700 feriti.Ma la ferita maggiore è quella subita dalla democrazia thailandese, un tempo portata ad esempio, ora macchiata dalla censura e dalla pena di morte per i rivoltosi. Le Camicie rosse non sono soltanto sostenitori di Thaksin, ma anche contadini, piccola borghesia, operai che si vedono dimenticati dall’élite commerciale e militare della capitale, in un Paese che è divenuto sempre più ricco, ma che non ha strumenti per ridistribuire il benessere. La loro lunga resistenza è e resta il segno di un disagio che non trova ascolto nel governo e nel potere militare, economico e giudiziario. La loro tenace obiezione è la dimostrazione che l’attuale governo non ha sostegno popolare e rappresenta appena gli interessi delle oligarchie cittadine, legate alla monarchia.Thaksin, ex primo ministro populista e accusato di corruzione, attento ai ceti meno abbienti, sostiene che ormai il Paese rischia «una guerriglia permanente». Per evitarlo, Abhisit dovrebbe recuperare il "suo" piano di riconciliazione – che prevede welfare per tutti e la modifica della Costituzione – e gestirlo rinunciando all’annientamento di un’opposizione sbaragliata di forza.Nella tragedia di Bangkok risaltano, infine, altri due elementi. Anzitutto il silenzio del re Bhumibol che dal 1946 ha superato ben nove colpi di Stato e che questa volta – forse perché ammalato – ha lasciato che prevalesse la logica del più forte. Il secondo dato è la voce forte, ma inascoltata, della Chiesa cattolica e dei capi religiosi buddhisti, che sin dall’inizio hanno chiesto ai contendenti di dialogare e di trovare una via comune al bene di tutti. Così non è stato. Ma chiese e templi sono divenuti l’unico luogo di riconciliazione, dove i feriti e i fuggitivi vengono accolti e curati e dove si garantisce loro l’incolumità. Un segno di contraddizione, un segno di speranza.
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