Politica e giustizia: il caso Lega
venerdì 6 luglio 2018

Il conflitto aperto e aspro tra una parte della politica e una parte della magistratura è uno dei fili conduttori della nostra storia nazionale da oltre 26 anni, ovvero dal febbraio del 1992, il punto di deflagrazione di Tangentopoli. In questi giorni quel conflitto si ripropone in una forma che a un osservatore distratto potrebbe apparire sorprendente: stavolta è infatti la Lega non più Nord, partito tradizionalmente di cappio, di ruspa e di manette (oggetti intesi come esibizione iconica di una rivendicazione di legalità al limite del giustizialismo), a guidare la rivolta contro alcuni giudici e a gridare all’«attacco alla democrazia». La storia è quella dei quasi 50 milioni di rimborsi elettorali non dovuti, per la quale l’anno scorso sono stati condannati in primo grado il leader storico Umberto Bossi, l’ex-tesoriere Francesco Belsito e altri.

Per far tornare quei soldi allo Stato, la Cassazione ha deciso qualche giorno fa che d’ora in poi sarà possibile sequestrare fondi alla Lega ogni volta e dovunque si trovino. Certo, non è una sentenza facile da digerire. Ecco perché improvvisamente il partito del Matteo Salvini "legge e ordine", uomo forte dell’esecutivo gialloverde (o gialloblu) di stanza al Viminale che fa il bagno nella piscina di un immobile confiscato alla criminalità, denuncia il tentativo di «mettere fuori gioco per via giudiziaria il primo partito italiano» (in alcuni sondaggi, perché in realtà - dati elettorali alla mano - è il terzo). Sembra il "copia e incolla" di una frase di Silvio Berlusconi, quando Forza Italia faceva il pieno di voti e di avvisi di garanzia.

Ma siamo sicuri che sia davvero una novità questa insofferenza leghista alle inchieste e alle decisioni della magistratura? Di certo non a quelle che riguardano il partito. Era il 1993, Tangentopoli era appena cominciata, quando dal palco di un comizio a Legnano Bossi mandò a dire al pm varesino che indagava su un suo senatore per finanziamento illecito e altri reati (poi archiviati): «Se ci sono magistrati commisti con la politica, abituati a zoppicare, raddrizzeremo loro la schiena». Un particolare rese ancora più sgradevole l’attacco: il magistrato in questione zoppicava davvero, a causa della poliomielite. Due mesi prima il Senatur aveva inviato un altro messaggio: «Se proprio devono riuscire a imbrattare la Lega Nord vorrà dire che è bene che si ricordino che al Nord una pallottola costa solo 1.500 lire». Il giorno dopo il capo dei nordisti precisò che no, non ce l’aveva con tutti i giudici, ma con chi avrebbe manovrato «servizi segreti e magistratura deviati».

Eccoci allora, un quarto di secolo dopo, a leggere due dichiarazioni di ieri. La prima è dello stesso Bossi, proprio sulla vicenda attuale: «Chiedete ai Servizi italiani... Hanno organizzato loro...». Di nuovo. La seconda è di Salvini: «Rispetto il lavoro della stragrande maggioranza dei giudici italiani, che al 99% fanno bene, obiettivamente e senza pregiudizi il loro lavoro». Novantanove su cento. E l’uno che non fa bene il suo lavoro è, ovviamente, quello che prende provvedimenti nei confronti della Lega.
Torna dunque a galla una vecchia abitudine del Carroccio, in seguito a una decisione della magistratura che - lo abbiamo già sottolineato - lo mette oggettivamente in grande difficoltà. Non deve essere facile, per l’attuale dirigenza leghista, ritrovarsi alle strette per via dei guai (presunti, fino a sentenza definitiva) combinati dal vecchio stato maggiore, pur sapendo che senza quei guai il vecchio vertice bossiano sarebbe ancora al timone.
Tuttavia Salvini è troppo accorto per non capire che oggi molto è cambiato, dall’era Bossi. Oggi la Lega non è più un partito su base territoriale solo nordica.

E il suo segretario è vicepresidente del Consiglio e ministro dell’Interno, cioè il responsabile politico della sicurezza e dell’ordine pubblico: insistere nel tirare per la giacca il capo dello Stato (presumiamo anche in quanto presidente del Csm), mettendolo così in imbarazzo istituzionale, non è una grande idea. In più, il suo alleato di governo è il Movimento che ha fatto del sostegno all’operato delle Procure un cavallo di battaglia e che, almeno fino a questo momento, ha resistito alla tentazione di attaccare le toghe quando indagano su suoi esponenti. Non a caso il ministro della Giustizia a 5 stelle, Alfonso Bonafede, ha già ricordato al collega Salvini che «le sentenze vanno rispettate, senza evocare scenari che sembrano appartenere alla seconda Repubblica».

C’è anche il rischio, dunque, di incrinare i rapporti nel governo, già messi alla prova da altri temi come l’immigrazione e le politiche del lavoro. La strada migliore, per quanto difficile, è sempre quella 'ordinaria', battuta anche con amarezza, ma con vigoroso spirito cittadino e giusto stile istituzionale da tanti leader della prima Repubblica presi di mira: difendersi nel processo e rispettare tutti i giudici, cento su cento, a cominciare da quelli che indagano sui fondi della Lega.

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