Roma non è stata condannata, ma è stata assolta? Il passaggio chiave della sentenza con cui i giudici di Strasburgo sembrano graziare l’Italia, in realtà mette in guardia dalle interpretazioni auto-assolutorie. Perché il garbuglio di scartoffie e segreti non permette di dimenticare cosa fin da allora in segreto faceva il nostro Paese nelle relazioni con la Libia. Se tutto fosse stato così trasparente, perché mantenere ancora oggi sotto chiave il contenuto dei rapporti e dei memorandum sempre rinnovati, fino ai silenzi di Stato sul caso Almasri, il generale riportato in tutta fretta in Libia nonostante un mandato di cattura della Corte penale internazionale? Dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu) più che l’implicito sostegno alle politiche migratorie è arrivato un esplicito grido di impotenza giudiziaria. La Corte, ricostruendo i fatti, ricorda che «la situazione era comunque regolata da altre norme di diritto internazionale, in particolare quelle relative al salvataggio delle persone in mare, alla protezione dei rifugiati e alla responsabilità dello Stato». Ma qui la competenza dei giudici della Cedu si ferma, e non può andare oltre.
L’autorità della magistratura «è limitata a garantire il rispetto della sola Convenzione (l’accordo che regola il perimetro di intervento della Cedu, ndr), non comprendendo il rispetto di altri trattati internazionali o di obblighi derivanti da fonti diverse dalla Convenzione». Come dire che se crimini contro i diritti umani sono stati commessi, per casi come questo bisogna semmai tentare la strada della Corte penale internazionale o della Corte internazionale di Giustizia, ammesso che vi siano le condizioni per accedervi. In sintesi, la Corte ribadito «che la sua autorità è limitata a garantire il rispetto della sola Convenzione - si legge in una nota da Strasburgo -, non comprendendo il rispetto di altri trattati internazionali o di obblighi derivanti da fonti diverse». Abbastanza per comprendere come l’Italia non sia stata assolta in senso pieno. E che semmai ora il rischio per le autorità di Roma, Malta o per gli organismi di Bruxelles che hanno cooperato - e cooperano - con la cosiddetta Guardia costiera libica, sia quello di venire trascinati davanti ad altri tribunali internazionali. I fatti risalgono all’alba del 6 novembre di otto anni fa. Al governo c’era il centrosinistra puntellato fra l’altro dal “Nuovo Centrodestra” di Angelino Alfano agli Esteri, Paolo Gentiloni premier, Marco Minniti agli Interni, Roberta Pinotti alla Difesa. A quel tempo nessuno poteva immaginare cosa sarebbe stato scoperto due anni dopo. La Libia dichiarava una sua zona di ricerca e soccorso (Sar), poi ritirata e infine ripresentata perché all’agenzia Onu per la navigazione si accorsero, tra le varie defaillance, che le mappe erano state disegnate al contrario.
Tempo dopo Avvenire scoprirà che non erano stati i libici a preparare il progetto della loro “Sar”, ma l’Italia con fondi europei. Ma in quel 2017 c’erano stati almeno altri due episodi controversi, finora mai del tutto chiariti dalle autorità italiane. A maggio una delegazione libica era giunta segretamente nel nostro Paese. Ufficialmente, per partecipare a una iniziativa promossa dall’Oim, l’agenzia Onu per le migrazioni. I componenti furono scelti da Tripoli e approvati dalle autorità italiane che ne concessero il visto. Tra loro c’era Abdurhaman al Milad, nome di guerra “Bija”, da tempo noto anche alle autorità italiane che in un dossier del “Centro Alti Studi del Ministero della Difesa”, lo avevano indicato come il boss del traffico di esseri umani, armi e petrolio di contrabbando, specialmente nell’area di Zawyah, dove ha sede il più grande stabilimento petrolifero. Dopo il viaggio in Italia (ancora non sono noti gli incontri svolti tra la Sicilia e Roma) le partenze dalla Libia crollarono, senza alcuno sviluppo positivo nel trattamento dei migranti reclusi nei campi di prigionia. E nell’autunno del 2017 partì per le coste tripoline la prima cospicua spedizione di milioni di euro italiani alle “municipalità” libiche, espressione diretta dei clan. Niente che possa far chiudere il capitolo Libia nell’archivio delle impunità di Stato.