mercoledì 21 dicembre 2011
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​Secondo un antico ma sempre valido adagio americano, i democratici vincono le elezioni quando i repubblicani hanno deciso di perderle. Nel disadorno fortilizio del Grand Old Party (che in ossequio al proverbio brilla per l’assenza di autentiche figure carismatiche), si affronteranno fra due settimane nelle primarie dell’Iowa l’ex governatore del Massachussetts Mitt Romney e l’ex speaker della Camera Newt Gingrich, entrambi dotati di scarse possibilità – per lo meno sulla carta – di battere il presidente Obama nella sua corsa al secondo mandato presidenziale. In crisi di popolarità (fino a pochi giorni fa il gradimento di Obama secondo i sondaggi era precipitato al 43%, il più basso degli ultimi decenni per un presidente in carica in procinto di farsi rieleggere, per poi risalire in queste ore ad un inaspettato 49%: effetto natalizio, secondo gli analisti), il primo inquilino della Casa Bianca si troverebbe dunque a scontrarsi con avversari dallo smunto appeal, famigerati più che famosi, come Gingrich – cristiano luterano, agguerrito e implacabile persecutore di Bill Clinton all’indomani dello scandalo Lewinski, cosa che gli costò una caduta verticale di consensi e il posto di speaker alla Camera dei Rappresentanti – o quasi sconosciuti, come Romney, figlio d’arte, missionario mormone in Francia, uomo d’affari prima che uomo politico (sua la vincente organizzazione dei Giochi Invernali di Salt Lake City del 2002) e oggi campione dei repubblicani moderati, così moderati da essere vicinissimi al modello-Obama, il che non gli consente di superare il 25% delle preferenze. Non ci crederete, ma tutti questi candidati, Obama compreso, corrono il serio rischio di vedersi superare e soppiantare da una agguerrita pattuglia di donne, ciascuna delle quali, a prescindere dai gusti elettorali, ha i numeri per vincere o comunque per aggiudicarsi il posto d’onore. Si tratta di un terzetto ben noto alle cronache, non solo americane: Sarah Palin, Condoleezza Rice e Hillary Clinton. Cominciamo da Sarah, che già aveva corso per la vicepresidenza nel 2008 a fianco di John McCain, divenendo quindi uno dei leader del movimento ultraconservatore Tea Party. La sua carriera politica (è stata governatore dell’Alaska), a dispetto dei pronostici, è tutt’altro che conclusa. In attesa delle primarie dell’Iowa del 3 gennaio la Palin rilancia: potrebbe entrare nel ticket repubblicano, a fianco del vincitore fra Gingrich e Romney. Ma la destra americana ha in serbo una carta a sorpresa: si tratta di Condoleezza Rice, già segretario di Stato con George W.Bush, oggi docente alla Stanford University, pronta però a rimettersi in gioco come avversario di Joe Biden, il vicepresidente di Obama, forte di una spettacolare preparazione internazionale e di un carisma che i repubblicani considerato non inferiore a quello della first lady Michelle Obama. Ma la sorpresa, quella vera, sembra riservarla Hillary Clinton. Sempre più insistita nei corridoi del Partito democratico – tanto da lambire fastidiosamente la stessa Casa Bianca – è la proposta scioccante di due strateghi dei sondaggi di Obama: i quali chiedono senza mezzi termini che il presidente si faccia da parte e rinunci alla candidatura a favore della moglie di Bill Clinton. E in mancanza di questo improbabile autodafé da parte del presidente che vinse con lo slogan – ormai un logoro ricordo – «Yes we can», la fronda democratica (che pare allargarsi giorno dopo giorno) suggerisce provocatoriamente di votare per Hillary a gennaio nelle primarie democratiche (solo formali) del New Hampshire: un segnale più che eloquente per far sapere a Barack Hussein Obama che il suo tempo è scaduto. Il che non sarebbe una novità assoluta: anche Lyndon Johnson (dopo un mandato e mezzo, subentrò infatti a Kennedy) nel 1968 rinunciò a correre per un secondo mandato pieno. All’epoca però era impensabile l’idea di una donna alla Casa Bianca. O di un vicepresidente nero, e donna, per giunta. Ma i tempi fortunatamente cambiano.
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