martedì 4 marzo 2014
COMMENTA E CONDIVIDI
Gentile direttore,
prendo spunto dalla lettera del signor Pietro Balugani e dalla sua risposta sul tema “Carceri: legalità è certezza della pena e rifiuto di ingiustizie e disumanità” (“Avvenire” del 1° marzo scorso), per formulare alcune osservazioni che vorrei fossero di qualche utilità in vista del dibattito alla Camera sull’argomento, fissato per il 4 marzo. Non v’è il minimo dubbio che l’attuale situazione delle carceri italiane, per il loro sovraffollamento, sia lesivo dei diritti delle persone. Lo ha messo in rilievo il messaggio del Presidente della Repubblica inviato al Parlamento nello scorso ottobre e, come lei osserva, «l’ultimatum, con scadenza a fine maggio, che la Corte Europea dei diritti dell’uomo ci ha riservato per il trattamento disumano e persino, nei fatti, di “tortura”, al quale in Italia arriviamo a sottoporre i carcerati». L’idea di intervenire con un’amnistia è stata evocata in diverse circostanze e senza seguito, probabilmente perché l’amnistia ha come effetto l’estinzione del reato e quindi l’integrale venir meno di ogni condanna ed essa, per ragioni di giustizia, non potrebbe essere applicata ai reati più gravi. Si è parlato anche di un indulto che, ai sensi dell’art. 174 del Codice Penale, non cancella il reato ma condona la pena inflitta senza estinguere le pene accessorie (salvo che il decreto che lo concede non disponga diversamente) e gli altri effetti penali della condanna. Ma di indulto non si è più parlato, probabilmente perché ritenuto contrario alla esigenza di certezza della pena. Ciò di cui non mi risulta si sia tenuto conto è che il citato art. 174 prevede anche un indulto parziale, cioè che l’indulto può condonare solamente “in parte” la pena inflitta o commutarla in altra specie di pena stabilita dalla legge. La possibilità di un condono parziale della pena mi pare meriti particolare attenzione nell’attuale situazione. Essa infatti, se il condono riguardasse un quinto o un quarto, o altra misura, delle pene inflitte, qualunque sia stato il reato per cui è intervenuta condanna, otterrebbe due distinti risultati: il primo consisterebbe in una giustificata riduzione della pena, in ragione della maggiore afflizione della detenzione subita a causa della situazione di affollamento delle carceri; il secondo effetto sarebbe quello di una scarcerazione immediata di un numero di detenuti tale da determinare migliori condizioni della detenzione per gli altri carcerati. Tale risultato sarebbe tanto maggiore quanto più rilevante fosse l’ammontare del condono concesso, determinazione spettante al potere legislativo e che potrebbe portare alla normalizzazione della situazione carceraria. Il prospettato indulto parziale potrebbe trovare applicazione, in forza della norma che lo disponesse, non solo con riferimento alle condanne già inflitte, a seguito di sentenza definitiva, ma altresì con riferimento alle condanne da infiggersi nei processi in corso; il giudice dovrebbe determinare la pena in base alla legge vigente e su tale pena applicare la diminuzione disposta con l’indulto parziale, diminuzione da rapportarsi alla durata della detenzione in condizione di sovraffollamento. Spero di aver portato un contributo alla riflessione comune.
Giulio Gavotti, presidente aggiunto onorario della Corte di Cassazione e già componente del Csm
Francamente non so, gentile presidente Gavotti, se ci siano le condizioni politiche per imboccare la strada di un atto di clemenza, anche solo nella forma di un «indulto parziale», condizionato e limitato secondo le previsioni di legge (articolo 174, e ultimi tre commi dell’art.151 del Codice Penale). Penso anch’io che un colpo di spugna totale e indiscriminato non sarebbe oggi possibile e accettato dall’opinione pubblica, e perciò credo che la sua riflessione su un provvedimento mirato sia certamente opportuna e utile. Nonostante i rimedi tentati attraverso provvedimenti che via via sono stati etichettati come «svuotacarceri», le condizioni di vita negli istituti di pena italiani restano infatti disastrose, un sovraffollamento che infligge quella che papa Benedetto XVI, incontrando i detenuti di Rebibbia pochi giorni prima del Natale del 2011, definì una ingiusta «doppia pena» e che umilia anche il lavoro di tutti gli operatori carcerari: dirigenti, agenti, assistenti, psicologi, educatori, cappellani, volontari... Toccare questo tasto, oggi persino più di ieri, significa attirarsi i fulmini di tutti coloro che considerano l’ultimo dei problemi del nostro Paese l’avere carceri «inumane», stavolta l’aggettivo è quello usato da papa Francesco nel messaggio per la Giornata della Pace 2014. In questi anni, sulle nostre pagine, abbiamo spiegato e rispiegato perché, invece, lo stato dei penitenziari sia un cruciale indicatore di civiltà. E lo abbiamo fatto anche raccogliendo storie che dimostrano quanto bene facciano alle singole persone e alla società intera le esperienze – che, pure, ci sono – di detenzione e di recupero umano realizzate secondo la Costituzione e le leggi. Per questo servono soluzioni strutturali, ma probabilmente anche atti straordinari. Non ho paura di ripetermi: infine, e per principio, siamo davanti a un aspetto essenziale della grande “questione legalità” che si pone nel nostro Paese. Torno perciò ad augurarmi che oggi, a Montecitorio, il dibattito sul messaggio inviato al Parlamento dal capo dello Stato sia davvero all’altezza delle attese. Spero, cioè, che indichi una via concreta per uscire dall’indegno pantano nel quale vivono troppi essere umani e dove, dopo la severa condanna e l’ultimatum della Corte europea dei diritti dell’uomo, è finito anche un altro po’ della credibilità dell’Italia.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI