venerdì 24 gennaio 2014
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Il terzo anniversario della rivoluzione che mise fine al lungo regno di Hosni Mubarak e portò poi al potere i Fratelli musulmani di Mohammed Morsi si sta consumando con l’ennesimo bagno di sangue: tre attentati kamikaze al Cairo (in parte rivendicati dal gruppo jihadista Ansar Bait al Makdis), sangue nelle piazze, vittime negli scontri fra forze dell’ordine e manifestanti, decine di feriti, un centinaio di arresti. Ma la grande sconfitta in realtà è la transizione verso una società democratica. 
 
Dopo il lungo regime di Sadat e poi di Mubarak, dopo la parentesi autoritaria di Mohammed Morsi, la cui cecità politica unita all’inesperienza di un movimento come quello dei Fratelli musulmani che era rimasto ai margini della vita politica per quasi un secolo, l’Egitto del generale al-Sissi rischia ora una vera e propria involuzione. Non basta certo il voto che ha confermato la Costituzione a dare una patente democratica a un Paese percorso da violente tensioni e da un crisi economica che ha messo in ginocchio l’intera società. Il rischio, come testimonia un rapporto di Amnesty International dal significativo titolo di «Egypt, roadmap to repression», è quello di passare “da un fascismo islamico a un fascismo militare”.
 
Le cifre non sono incoraggianti: oltre 1.400 persone uccise dal giorno della deposizione di Morsi, migliaia gli arrestati, i dirigenti della Fratellanza musulmana sotto processo con l’accusa di terrorismo, la messa al bando dei partiti religiosi e di quelli etnici, un potere quasi assoluto nelle mani delle forze armate e una sistematica violazione dei diritti umani. Fra sei mesi si svolgeranno le elezioni presidenziali e poi quelle parlamentari. Sarà decisivo in quel frangente il voto dei milioni di giovani delusi che per ora hanno disertato le urne. Loro soltanto, insieme con la pancia sonnolenta del corpo elettorale, potrebbero cambiare il tracciato della roadmap egiziana. Prima che sia troppo tardi.
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