domenica 24 gennaio 2010
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Saper riconoscere Dio che passa. È la millenaria competenza naturale della creatura umana, che nell’età moderna sembra però essersi offuscata fino a smarrirsi in questa nostra contemporaneità pulviscolare dentro il dedalo inesauribile delle opinioni. Eppure, lo sappiamo: per quanto si adoperi, il clamore del mondo non riesce a spegnere la voce interiore che ci rende ancora distinguibile una Presenza sottesa ai segni della vita quotidiana. A istinto, Dio lo "sentiamo": capiamo ancora che è Lui, per quanto insensibile o distratta sia diventata l’anima di ciascuno. Nessuna raffinata spiegazione scientifica, psicologica o economica riesce infatti da sola a dar conto di ciò che l’intelligenza coglie e registra, di offrire risposte all’altezza della nostra ricerca. Siamo "capaci" di Dio ma è come se ce lo fossimo dimenticato, nello stordimento al quale siamo ormai consegnati. L’esplosione digitale dei mezzi di comunicazione, dei loro strumenti e messaggi, non fa altro che alzare il volume col quale dobbiamo convivere da abitatori della "pubblica piazza" mediatizzata, condivisa con tutti. Un rumore di fondo che rende semmai più acuta quella nostalgia infinita del cuore colta da sant’Agostino. C’è un solo "canale" che dà sempre il programma giusto, ma è necessario che qualcuno ci aiuti a captare la sua non facile frequenza. Basterebbe un prete, la figura che deve «aiutare gli uomini di oggi a scoprire il volto di Cristo». È sempre bastato, dentro qualsiasi cultura. E quando lo stordimento cresce la sua mano si fa ancor più necessaria.È dunque ai sacerdoti – guide predestinate di una simile ricerca del "Dio che passa" in ogni tempo – che Benedetto XVI ha pensato di dedicare il Messaggio 2010 per la Giornata mondiale delle comunicazioni, in calendario domenica 16 maggio. Una scelta in qualche modo annunciata nell’Anno Sacerdotale al quale il Papa sta riservando una cura magisteriale continua. Ma col testo diffuso ieri – e che oggi pubblichiamo a pagina 9 – il Santo Padre delinea per la prima volta i tratti di una inedita «pastorale nel mondo digitale», citata per ben due volte come il percorso necessario all’annuncio del Vangelo in quel territorio mediatico definito nel Messaggio 2009 come un vero «continente» brulicante di vita e in attesa di nuovi evangelizzatori. Anche "giù nel cyberspazio" – per dirla con lo scrittore-futurologo William Gibson – Dio chiama apostoli evangelicamente saldi e mediaticamente credibili, i sacerdoti in primis: non "occupatori" di una porzione di suolo – avverte il Papa – secondo una «mera esigenza di rendersi presente», ma «animatori di comunità che si esprimono ormai, sempre più spesso, attraverso le tante "voci" scaturite dal mondo digitale». Se Dio oggi passa nel Web 2.0 e nella galassia multicanale della tv digitalizzata, i sacerdoti devono farsi carico della nuova ricerca che sgorga da navigazioni e consumi entrati nella struttura stessa dell’esistenza: quasi una loro componente essenziale, una dimensione nutrita da strumenti a loro volta trasformati in prolungamenti dei sensi, protesi indispensabili per connettersi al prossimo. Altro che sfizi per tecno-maniaci: computer, cellulare e televisore rivisitati dalla tecnologia digitale hanno il volto amichevole del compagno di viaggio quotidiano, e chi ha anime affidate alla propria cura deve conoscere le mediazioni per le quali oggi passa la ricerca di notizie, valori, mete, amicizie. Di Dio, anche.Non è più il tempo dei soli sacerdoti col "pallino" delle comunicazioni: il Papa vuole farlo capire bene al punto da scrivere che siamo «all’inizio di una storia nuova»: «Quanto più le moderne tecnologie creeranno relazioni sempre più intense e il mondo digitale amplierà i suoi confini, tanto più egli (il sacerdote) sarà chiamato a occuparsene pastoralmente». Chi avesse dubbi al riguardo venga a Roma, a fine aprile: il Papa attende tutti gli «animatori» della comunicazione della Chiesa italiana per un convegno – «Testimoni digitali» – che scriverà una delle prime pagine di questa «storia nuova». È anche nel digitale che Dio passa, per aprirci gli occhi e riconoscerlo, come ai discepoli di Emmaus.
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