sabato 16 luglio 2016
Come lanterne nell'attesa
COMMENTA E CONDIVIDI

Se Mosè, o Geremia o Gesù avessero pensato che il loro messaggio potesse venire inteso come un discorso edificante da farsi in un luogo sacro, o da meditarsi in un tempo sacro, o in uno spazio interiore isolato dal resto della vita, si sarebbero meravigliati e sdegnati. Né per Mosè e i profeti né per Gesù le loro parole erano destinate a un versante religioso della vita, perché questo versante non esisteva.Paolo De Benedetti, La morte di Mosè e altri esempi«Voglio cantare per il mio amico amato un cantico d’amore per la sua vigna. Il mio amico possedeva una vigna sopra un poggio di terra grassa. Egli l’aveva zappata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato un vitigno rosso; in mezzo vi aveva costruito una torre e scavato anche un torchio. Egli aspettò che producesse uva pregiata; essa produsse, invece, uva selvatica amara». (Isaia 5,1-2). Questa vigna pervertita siamo noi, è la nostra umanità che non genera i frutti che potrebbe e dovrebbe portare. Sono passati più di due millenni e mezzo da quando queste parole furono scritte, ma lo spettacolo della vigna ribelle, guastata e marcia continua a riempire l’orizzonte sotto il sole. Avremmo tutte le condizioni per generare uva buona, e invece continuiamo a produrre uva selvatica. La stessa uva cattiva di Caino, di Lamek, di Gezabele. A Sodoma, a Dacca, a Nizza, a Istanbul.Un contadino aveva piantato una buona vigna, nel terreno migliore, e l’aveva coltivata con tutta la sua cura. L’aveva amata, accudita, vi aveva posto al centro una sentinella per proteggerla dai ladri, selezionato i migliori vitigni della zona. Non poteva fare di più per la sua vigna. Voleva solo che crescesse in tutto il suo splendore e in abbondanza. Ma la vigna non gli ha ubbidito, ha portato frutti cattivi, ha rinnegato e guastato il lavoro del vignaiolo. Il contadino può fare la sua parte perché il suo campo generi frutti buoni, ma la "vigna" ha una sua misteriosa libertà. Può ribellarsi e non seguire la legge della vita. Solo chi ha coltivato e posseduto una vigna può intuire qualcosa della forza di questo canto di Isaia. Forse nessuna pianta come la vite ha bisogno di un rapporto simbiotico con il vignaiolo. Senza le mani, la fatica, l’attenzione continua del contadino, le vigne non producono buon vino. E pochi frutti come l’uva danno una gioia intima al suo coltivatore. Mio nonno, giunto sulla soglia dei novanta, non riuscendo più ad andare nei suoi campi, volle piantare soltanto alcuni filari di viti, ma di fronte alla porta di casa. La vigna è tra le immagini più ricorrenti e rivelative della Bibbia, simbolo della donna, della sposa. È tutta la Bibbia a salire sull’altare insieme al vino.

L’uva marcia e rovinata era frequente nell’antichità. Parassiti, batteri, muffe, colpivano spesso i vitigni e gli acini, e non era raro perdere l’intero raccolto. Ancora oggi il contadino è l’uomo dell’attesa: dipende dall’ubbidienza libera della terra, delle piante, degli insetti. Anche se cerca di controllare con la tecnica e la sua intelligenza la libertà della natura, se non è un mercenario sa che il frutto della terra è soprattutto dono, e quindi libero e incerto come tutti i doni. È la reciprocità la prima legge del contadino. L’allegoria che qui Isaia usa è però ancora più forte: le viti si sono inselvatichite, il vitigno si è snaturato ed è tornato alla condizione silvestre che aveva prima che l’uomo lo addomesticasse e ne traesse vino buono. Trasformare la vite da pianta silvestre in vigna capace di vino fu un processo lungo, una grande conquista tecnica e culturale. Una vigna nell’antichità era uno spettacolo di eccellenza umana, la frontiera della tecnologia e dell’economia del tempo. Chi ascoltava Isaia nel tempio o nelle piazze, non aveva allora bisogno di mediazioni, perché le vigne erano parte della vita di tutti. E così tutti potevano e dovevano capire la profezia quando nel canto della vigna arrivava il grande colpo di scena: «La vigna è la casa d’Israele» (5,7). Isaia qui esce dalla allegoria e arriva alla politica, all’economia, alla vita della gente.Quando i profeti escono dalle allegorie e dalle metafore non arrivano alla religione. Non comprendiamo la forza e la natura delle parole dei profeti se pensiamo siano una faccenda religiosa. Essi parlano della vita, di tutta la vita, solo della vita. Le fedi iniziano a morire e a pervertirsi quando creiamo uno spazio religioso e lì dentro le imprigioniamo. Nessuna fede ci libera senza l’aria aperta delle città. Sono gli idoli che hanno bisogno dello spazio del sacro, ben recintato e protetto da piedi diversi; non la fede dei profeti, che ha fatto sì che il popolo di Israele, nonostante le sue ribellioni, abbia celebrato il suo Dio in un tempio vuoto. Grande fu, infatti, la sorpresa di Gneo Pompeo quando, domati i giudei, entrò nel tempio di Gerusalemme: «Non vi era alcuna immagine di divinità, il luogo era vuoto e il santuario tanto segreto non nascondeva nulla» (Tacito, Storie, V,9). I templi buoni e amici dell’uomo sono quelli che ci dicono che Dio non abita lì, perché la sua casa è il mondo, ed è solo lì che va cercato e amato. I nostri tabernacoli sono lanterne che attendono Chi che non è ancora tornato.
La meravigliosa unica bellezza dei profeti sta allora nel ripeterci con tutta la forza e in tutti i modi: la vigna è il nostro mondo (Mt, 13,38). L’essere umano è più grande della sua dimensione religiosa, e la Chiesa può essere un buon luogo dove vivere e crescere se prende le dimensioni infinite del Regno. Troppa profezia oggi non arriva a chi dovrebbe ascoltarla perché chi esercita per vocazione questa funzione non riesce a uscire dall’ambito religioso, non vuole o non sa trovare parole tutte umane per ridire oggi le parole di Isaia. Perché ha dimenticato che il luogo dove parla il profeta è la piazza, la fabbrica, il parlamento. Solo qui sa parlare. Tutti gli altri templi sono troppo piccoli e bassi. Il profeta è "amico" di Dio (5,1). E quindi è amico dell’uomo. È anche amico del contadino che lavora e spera nella reciprocità della vigna. Non si possono scrivere questi cantici eterni senza amare i protagonisti delle loro storie: le allegorie che sfruttano e strumentalizzano i loro protagonisti non hanno la forza di convertire nessuno.Voglio allora pensare che se Isaia parlasse oggi userebbe soltanto il linguaggio e le parole di tutti, non ne vorrebbe conoscere altre. Una donna aveva lavorato sodo tutta la vita, e con molti sacrifici aveva messo da parte dei risparmi. Li aveva affidati alla banca del suo paese. Si era fidata di chi le aveva consigliato come investirli, perché lo conosceva. Ma un giorno scoprì che quel risparmio era sfumato, marcito: i banchieri invece di custodirlo lo avevano usato per speculare, e i manager per aumentare i loro bonus. Un uomo aveva un laboratorio artigiano, lo aveva ereditato da suo padre e curato. Un giorno un funzionario pubblico gli chiese una tangente se voleva continuare a lavorare. Quell’uomo sapeva solo fare sedie e mobili onestamente, e non poteva cedere al ricatto. E così una mattina il suo laboratorio non c’era più, era stato incendiato.
Forse Isaia avrebbe raccontato storie simili a queste, ma con tutt’altra forza e bellezza. Avrebbe raggiunto i suoi uditori nella loro vita quotidiana, dentro le loro passioni e il loro sdegno. E poi avrebbe detto: "Quella banca è il nostro capitalismo, quel corruttore è il nostro sistema politico, è questo il mondo che abbiamo costruito tradendo le promesse e i patti dei nostri padri". La forza della profezia è saper passare dalla vigna e Israele, dalla banca al capitalismo, dal corruttore al sistema malato. E poi avrebbe ripetuto gli stessi guai, senza cambiare una virgola: «Guai a voi, che aggiungete casa a casa e unite campo a campo, finché non vi sia più spazio, e così restate soli ad abitare nella terra. Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che assolvono per regali un colpevole e privano del suo diritto l’innocente» (5: 8,20,23).
Il cantico di Isaia non ci dice come il male si insinui dentro quella vigna così curata, non ci parla della "tecnologia" del tradimento. Ci dice solo che il male arriva contro la volontà dell’agricoltore. La sorte della vigna è iscritta nella sua storia: «Ora voglio farvi conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna: toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo; demolirò il suo muro di cinta e verrà calpestata...» (5,4). Qualsiasi buon contadino avrebbe fatto lo stesso. La vigna era già tornata selvatica, aveva già disperso il frutto del lavoro di addomesticamento del vignaiolo. Quale senso avrebbe avuto conservare un torchio se non c’era nulla da vendemmiare, o assumere una sentinella, recintare, vangare, potare e irrigare uva selvatica? Non c’è nessuna punizione, tantomeno nessuna vendetta. Dio può solo soffrire mentre assiste al dolore causato dalle nostre azioni sbagliate. La sua prima misericordia è piangere con noi, per noi. La fine delle nostre storie è nel loro inizio: la vigna torna al pascolo, la finanza spietata fallisce, gli imprenditori migliori chiudono o fuggono via e il paese sprofonda dentro la propria corruzione. I profeti vedono il domani perché sanno leggere in profondità il passato e il presente, e lì intravvedono i semi che stanno per maturare.
Il primo vignaiolo che troviamo nella Bibbia è Noè, che dopo aver svolto il suo compito e salvato i viventi dal grande diluvio piantò una vigna e fece del vino (Genesi 9,20). In una terra tutta guastata come quella vigna, fu sufficiente la presenza di un solo giusto, di un uomo che rispose ad una chiamata, e costruì un’arca di salvezza. Una sola vite sana, forse un solo grappolo o persino un solo acino buono, può salvare una vigna inselvatichita. Anche la nostra vigna può ancora sperare: «Dio, ritorna! Guarda dal cielo, vedi e visita questa vigna» (Salmo 80).l.bruni@lumsa.it 
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI