sabato 13 agosto 2016
Oltre la carestia di promesse
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Questa è la lingua dei profeti, per i quali il futuro non è da qualche parte, bensì è ciò che è ancora in divenire. Ci fa sperimentare la storia come qualcosa di cui fummo partecipi. Questo già e questo ancora, questo non più, questo non ancora: sono questi i grandi bilancieri nell’orologio della storia universale.Franz Rosenzweig, La Bibbia ebraicaLa verità della profezia non si misura sulla base della vicinanza delle parole del profeta alla realtà futura, ma, paradossalmente, sulla base della distanza. Sono le false profezie quelle che cercano di prevedere la realtà, e così aggiornano continuamente la loro parola per farla coincidere con i fatti. Un mestiere antichissimo, che gli aruspici, gli indovini, gli scenaristi continuano a fare molto bene. La falsa profezia è generatrice di speranze vane, di parole che consolano il popolo promettendogli un futuro tarocco. I falsi profeti sanno fare solo questo, e i profeti veri lo sanno molto bene, perché nessuno più di loro li conosce e riconosce. La profezia, soprattutto quella di speranza, detta durante la sventura è invece una sfida, una provocazione alla storia di oggi perché divenga quello che non è ancora. È una lotta con la realtà, è un’azione, è un cimento, è il colpo di bastone che il contadino dà all’albero sterile perché torni a portare frutto. È una preghiera, è un salmo, è un urlo. Nella Bibbia non ci sono soltanto preghiere che gli uomini e le donne hanno rivolto a Dio: c’è anche una forte, costante, tenace preghiera che Dio rivolge a noi. È Dio il primo orante della Bibbia, che, con la voce dei profeti, ci implora di tornare a casa, ci supplica di diventare ciò che saremmo ma non siamo.
Al centro del capitolo 10 ritroviamo un grande tema di Isaia: il ritorno e la salvezza di un resto. “Un-resto-tornerà” è il nome che aveva dato ad uno dei suoi figli, ed è anche il cuore della sua visione della salvezza: «Solo un resto – il resto di Giacobbe – farà ritorno al Dio forte. Poiché anche se il tuo popolo, o Israele, fosse come la sabbia del mare, soltanto un suo resto ritornerà» (Isaia 10, 21-22). Queste parole sono state scritte, riscritte, emendate, in periodi tra i più bui della dolorosa e complessa vicenda del popolo di Israele: guerre, esili, la separazione e la dispersione della maggior parte delle tribù dei figli di Giacobbe-Israele che non fecero più ritorno in patria dopo l’esilio. Una profezia che parla di ritorno e di salvezza nel tempo del non-ritorno, e quindi del non-compimento della promessa fatta ai padri. Ad Abramo, dopo il monte Moria, YHWH aveva detto: «Io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare» (Genesi 22,17). E molte altre volte lo ripeterà, poi, ai suoi figli. Isaia conosce questa grande promessa, che è il fondamento della fede sua e del suo popolo. Crede e ha fiducia in quella parola originaria. Ma i fatti gli dicono il contrario: il popolo è disperso e smarrito. È questa la prima fatica morale, infinita, del profeta: annunciare una parola e vivere dentro un presente storico che la nega. Il suo compito è restare dentro questa tensione vitale, cercando di salvare la parola dalla forza contraria dell’evidenza storica.La teologia del resto è un elemento fondamentale della “strategia” di Isaia per salvare la promessa e la storia. Non nega il presente con la sua evidenza contraria alla parola, ma la fede dell’inizio è salvata partendo dalla fine. I figli di Israele-Giacobbe non sono diventati numerosi come la sabbia. La promessa dell’inizio non si sta compiendo come i patriarchi l’avevano immaginata, raccontata, custodita. Da questo dato occorre partire, senza però restarci imprigionati.
Le crisi più grandi e difficili delle persone e delle comunità che hanno creduto in una parola e in una promessa, sono quelle generate dai fatti di oggi che smentiscono la promessa di ieri. I figli diminuiscono, i frutti che dovevano arrivare non arrivano, l’attualizzazione dell’ideale è sempre più lontana. La perdita della fede (nell’ideale, nella voce che l’ha pronunciato, in noi che l’abbiamo ascoltata, negli altri che ce l’hanno spiegata in gioventù) è la soluzione più semplice in queste grandi crisi della vita. I profeti – quando ci sono, quando li ascoltiamo e quando non ascoltiamo i falsi profeti – tengono viva la fede di ieri nella prova di oggi donandoci un racconto diverso di domani. Dalle crisi non si esce semplicemente rielaborando il passato e reinterpretando l’antica promessa, ma iniziando a narrare una storia diversa del futuro, possibile e convincente. Nessuna nuova lettura dell’inizio è sufficiente per riprendere il cammino se non abbiamo un bel racconto della fine.Isaia ci dona un metodo di racconto della fine, quando ci dice, ci ripete qui ed ora: “Solo un resto tornerà”. La prima promessa si compie soltanto in parte (‘soltanto un resto’), ma si compie veramente. Non era inganno né illusione, era soltanto eccedente. La prima promessa era troppo grande per compiersi, ma se fosse stata meno grande Abramo non sarebbe partito, non avremmo pronunciato nessun “per sempre” (la nostra carestia di “per sempre” è anche conseguenza di una carestia ancora più severa di promesse grandi). Solo la promessa dell’infinito e dell’impossibile rende possibile oggi l’esperienza del finito. In ogni vocazione, in ogni speranza grande della giovinezza. Soltanto un resto si salverà, ma si salverà davvero, la promessa non è stata vana.
Quando la vita si svolge come cammino vocazionale, come sequela di una prima voce-promessa, a un certo punto occorre comprendere – e se non lo comprendiamo il cammino si inceppa – che “solo un resto si salverà”. Che la sabbia dell’intero mare che ci era stata promessa il giorno del grande incontro, è soltanto la sabbia della spiaggia di fronte a casa, forse solo quella sotto l’ombrellone, o soltanto quella che possiamo racchiudere in un pugno. Eravamo partiti in cerca del cielo, pensavamo di aver trovato il paradiso sulla terra, di conoscere Dio ed essere diventati suoi amici. Passano gli anni, e ci ritroviamo circondati da nubi fitte, il paradiso terrestre non lo abbiamo trovato, la vita che pensavamo di vivere non siamo riusciti a viverla perché si è rivelata troppo diversa da come l’avevamo immaginata, e chi è Dio lo sappiamo sempre di meno.Possiamo uscire da queste autentiche depressioni spirituali se un giorno ci accorgiamo che è un resto che si salva: che la salvezza è veramente quella sola piccola cosa che è sopravvissuta della prima promessa. È quella persona che abbiamo salvato dalla trappola dove era precipitata, quel lavoro che abbiamo fatto bene per quarant’anni anche se non era la nostra vocazione, quella preghiera che abbiamo continuato a recitare negli anni del deserto senza capire più le parole che pronunciavamo. La maggior parte della nostra vita non è diventata quello che volevamo, quasi tutte le prime parole del primo incontro una alla volta hanno smesso di parlarci. Ma una parola, una sola, è rimasta viva ed è cresciuta; un compito, uno solo, lo abbiamo svolto bene e continuiamo a farlo bene e bello. E così un giorno sentiamo con chiarezza che in quell’umile ’pugno di sabbia’ c’è tutta la promessa antica; che si è salvata, che ha salvato noi, che ha salvato il mondo intero. Anche i granelli di sabbia contenuti in una mano sono innumerevoli, non li possiamo contare. Volevamo una salvezza grande e potente, e non l’abbiamo trovata. Finché non scopriamo che era piccola e fragile, come un bambino, e per questo non l’avevamo riconosciuta.
Ma se un piccolo resto della prima promessa è ancora vivo e vero, allora può gettare un nuovo virgulto – è questo il miracolo delle piante, poter ritornare a fiorire se solo un piccolo resto del corpo è ancora vivo: «Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici» (11,1). Il germoglio è la fioritura del resto è la possibilità, la speranza, che quell’albero che non abbiamo ancora visto, o che è stato mozzato, potrà ancora essere, diverso da quello sognato, non meno reale, forse più bello ancora. L’abbattimento dell’albero non era il fallimento della promessa, ma solo la fine della nostra immaginazione della promessa. Ma queste cose, cioè la differenza tra l’albero del sogno e l’albero della promessa, possono svelarcele soltanto i profeti, lottando contro i falsi profeti che ci vogliono convincere che l’albero è uno solo, o che la sua caduta è stata soltanto un’allucinazione. Non c’è nulla di più doloroso per un profeta che continuare ad annunciare l’albero che non c’è ancora quando alcuni vedono un tronco tagliato, gli altri, sotto incantesimo, continuano a vedere alberi invisibili, e nessuno riesce vedere il germoglio. La potenza, la verità e l’efficacia della profezia – di chi un giorno l’ha pronunciata, e di chi oggi la rivive e la ripete – stanno nel grido del suo parto. Per sentire nella carne la forza e il dolore-amore di queste profezie di Isaia, dovremmo allora pronunciarle collocandoci, almeno con l’anima, in una città del Sud Sudan, della Libia, ad Aleppo, in quella Siria così presente nel suo libro. E da lì intonare di nuovo il grande canto del profeta, pregare con le sue parole diverse, chiedere alla storia di cambiare. Implorare pietà a Caino, al serpente, agli orsi e ai lupi che si stanno sbranando tra di loro e divorando i bambini. Scuotere i nostri alberi sterili. Perché per poter ricominciare a credere in una speranza non vana nel tempo dell’albero abbattuto, c’è bisogno di una promessa della fine più grande di quella dell’inizio: «Il lupo dimorerà insieme con l’agnello; il leopardo si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un piccolo fanciullo li guiderà. La mucca e l’orsa pascoleranno insieme; i loro piccoli si sdraieranno insieme. Il leone si ciberà di paglia, come il bue. Il lattante si trastullerà sulla buca della vipera; il bambino metterà la mano nel covo del serpente velenoso. Non si farà più del male» (11,6-9).l.bruni@lumsa.it
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