Brexit: intesa piccola ferita grande
sabato 26 dicembre 2020

«Bah, Humbug!» (È un imbroglio!). Così Ebenezer Scrooge nel Canto di Natale di Dickens amava intercalare a proposito di ogni cosa, con particolare riguardo all’affidabilità della natura umana. L’epiteto calza a meraviglia per Boris Johnson. Basterebbe guardare il video-messaggio diffuso all’indomani dell’accordo finale sulla Brexit raggiunto con l’Unione Europea per rendersene conto. In perfetto stile da imbonitore Bojo ha sventolato in diretta il faldone da quasi duemila pagine che contiene i più minuti dettagli del deal offrendolo ai cittadini come il suo personale Christmas Carol, un dono natalizio di cui mena vanto e orgoglio, accompagnato dall’annuncio del nuovo vaccino anti-Covid.

Ma a dispetto di quell’imbonimento televisivo non si tratta di una vittoria. A meno di non voler considerare l’accordo spuntato dai negoziatori di Johnson sui diritti di pesca come uno snodo epocale del calibro della battaglia di Lepanto. Paragone alquanto temerario, visto che la pesca incide sul Pil britannico in ragione dello 0,1%. Ma era questione di principio, Bojo voleva che con la riconquista dei mari risuonasse orgoglioso quel Rule Britannia, rule the Waves, l’inno più celebrato del Regno Unito dopo God save the Queen.

Un Boris Johnson euforico nella foto postata dal primo ministro sul proprio account social

Un Boris Johnson euforico nella foto postata dal primo ministro sul proprio account social - Twitter / Ansa

Ma dietro l’esultanza a Downing Street, cui non corrisponde altrettanta euforia nel Paese, c’è la mestizia di un divorzio che a conti fatti è una sconfitta per tutti. Per l’Unione Europea, certamente, così come per il Paese che ha rifiutato moneta, regole finanziarie e normative che si armonizzassero con il resto d’Europa, forte di quegli opt out che gli consentivano di restare dentro l’Unione rimanendone in parte fuori, di beneficiare dello status di Paese membro salvo poi reclamare la propria estraneità secondo convenienza. Un Paese che più d’ogni altro ha beneficiato di sconti impensabili. Merito essenzialmente dell’antieuropeismo convinto di Margaret Thatcher e del suo spirito bottegaio, che per lunghi anni ha tenuto l’Europa per il bavero trasmettendone poi lo spirito ai suoi epigoni, dall’incauto David Cameron alla sfortunata Theresa May, fino a questo premier dall’eccellente cursus honorum e dall’impareggiabile improntitudine del clown.

E ora che, dopo quarantasette anni di non facilissima convivenza, e altri tre di turbolenze, ripicche, imboscate e ultimatum puntualmente rientrati, il divorzio si compie, resta solo un’unica amara considerazione: non c’è niente da festeggiare, perché dal 1 gennaio saremo tutti più poveri. E non tanto sul piano economico, quanto su quello umano, sociale, politico.

«Alone but strong», amano dir di sé gli inglesi: soli ma forti. Per una volta anche l’Europa – ma diciamo pure il suo unico vero leader di statura mondiale, Angela Merkel – è stata altrettanto risoluta: per quanto in patria egli canti vittoria, non ci sono state grandi concessioni per Bojo. Anche lui però – qualcuno dice per rappresaglia – ci ha sottratto qualcosa di prezioso, come l’Erasmus: «Costava troppo» (243 milioni di sterline all’anno), ha tagliato corto. E costerà ancora di più alle decine di migliaia di giovani che se vorranno ancora dovranno pagarsi gli studi nel Regno Unito e che costringerà molti di loro (soprattutto i meno abbienti) a rinunciare a un corso di laurea oltre Manica. E a rinunciare all’avventura britannica saranno anche i moltissimi che nel Regno Unito cercavano (e spesso trovavano) un lavoro: per potervisi stabilire d’ora in poi occorrerà avere in tasca un contratto da almeno 26.500 sterline annue.

«Non c’è un vincitore nella Brexit – ha riconosciuto il capo negoziatore della Ue Michel Barnier –: è una sconfitta il doversi separare. Il Regno Unito ha scelto di essere solitario piuttosto che stare insieme a noi ed essere solidale». Ma si sa, lo «splendido isolamento» resta uno dei miti fondativi dei britannici e la sua musica continua ad ammaliare. Nel Canto di Natale dickensiano il misantropo Scrooge alla fine si ravvede, abbandona egoismo e micragnosa spilorceria con i quali scrutava accidioso il mondo. Ma non per nulla – per quanto racchiuda profonde verità – quello è un racconto morale. Noi e gli inglesi che l’han votato e gli scozzesi che meditano sorprese invece ci dobbiamo accontentare dei discorsi di Boris Johnson.


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