giovedì 4 settembre 2014
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L’Italia è un Paese che festeggia il Primo Maggio ma non sa più cosa sia il Giorno del Ringraziamento. La sorpresa con cui scopriamo che i posti di lavoro aumentano solo in agricoltura è il risultato di un’involuzione culturale. Per decenni, infatti, ci siamo quasi smaniosamente affrancati dalle nostre radici rurali; dal sogno industriale alla terziarizzazione, abbiamo indossato prima la tuta e poi la cravatta anche per dimenticare la terra da cui venivamo. Con questo strappo se ne sono andati in buona misura quegli «stili di vita più fraterni e più solidali» che il segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin, ha richiamato ieri alla Coldiretti, tratteggiando l’uomo come «la figura vivente più preziosa» alle cui «mani operose» è affidata la Creazione. Una visione dimenticata per anni da troppi italiani.Contadini, villani e cafoni: non è un caso se questi termini abbiano acquisito una connotazione negativa mentre i figli dei braccianti che cantavano Sciur padrun da li beli graghi bianchi ci trasformavano in una potenza industriale. Dobbiamo molto – diciamolo chiaro – a quella generazione strappata ai campi per vivere la parabola della modernizzazione e consegnarci un Paese alfabetizzato e integrato in Europa. Non si può tacere però che al termine di quel gigantesco investimento umano vi sia stato anche il falò delle vanità, l’ipertrofia dello Stato e il sabbah finanziario della new economy, lo sciame sismico di questa crisi che non finisce mai e un’urbanizzazione selvaggia che ha lasciato in eredità un territorio fragile. Prendere atto che l’unica ripresa, in termini occupazionali, è quella degli operai agricoli può essere indigesto ad alcuni, ma sarebbe un sminuire il dato, che non è episodico né era imprevedibile. Sono anni che l’occupazione agricola sta crescendo e non è una tendenza limitata al lavoro dipendente, in quanto aumentano i giovani imprenditori e, prima ancora, le iscrizioni agli istituti agrari e alle facoltà di agraria. Stiamo assistendo, allora, a un rinascimento rurale? Per essere così, le statistiche dovrebbero accompagnarsi a una riscoperta culturale delle radici che però non si vede del tutto.Restiamo un Paese ignorante in materia agricola. Ci riempiamo la bocca di "eccellenze" e chi ha qualche soldo da spendere mangia solo biologico; come in tempo di guerra, si organizzano spedizioni fuori porta, in cerca della cascina che vende latte e burro a chilometro zero, e non c’è comitiva di amici che non si divida tra gli aficionados del pata negra e i seguaci del maiale nazionale. Eppure, in questi anni, le nostre stalle sono state gestite da bergamini asiatici, arrivati in Italia nel doppio fondo dei tir, che prendono buoni stipendi perché sanno accudire le vacche e – diversamente dagli italiani – sono disposti a lavorare di notte e di domenica.L’errore nazionale non consiste dunque nell’aver lasciato le campagne sessant’anni fa, ma nell’averle dimenticate in questi sessant’anni, magari asserendo di provare un’infinita nostalgia per la via Gluck e quella casa in mezzo al verde ormai. Peccato di superbia collettivo: dei giornali, delle università, della finanza... Ma non solo. Quest’oblio ha messo a repentaglio un know how che è la vera ricchezza nazionale ed è il motivo per cui, in piena crisi, l’agricoltura italiana tira ancora: se c’è chi fa affari sul «mangiare italiano, vivere italiano» sostenendo che «l’alta qualità è alla portata di tutti» lo deve al fatto che in migliaia d’anni in Italia si è creata una non codificata "scuola" agricola e agroindustriale. Quello che molti concittadini non sanno è che 4 milioni di persone sono impegnate nella produzione agricola e agroindustriale e che il loro mestiere non è più quello di sessant’anni fa – è cambiato profondamente, grazie a misure come la legge di orientamento e la nuova pac – ma che grazie a loro quest’esperienza si è perpetuata anche quando "contadino" era un’offesa. Quello che molti italiani non sanno è che il primato del "made in Italy" non è solo agricolo: la nostra industria ha una lunga storia nella produzione di tecnologie per oleifici e cantine e che i nostri enologi sono tra i primissimi al mondo...Ricordiamoci allora che la Giornata del Ringraziamento è l’undici novembre, San Martino, il giorno in cui scadevano i contratti agricoli e iniziava il nuovo anno. Il Primo Maggio ricorda invece la conquista delle otto ore di lavoro, la prima e più simbolica conquista operaia in Italia, avvenuta nel 1923. Peccato che le prime a "strappare" quell’orario, nel 1906 siano state le mondine, nelle risaie di Vercelli...
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