sabato 29 settembre 2012
COMMENTA E CONDIVIDI
Tenete il riso amaro, qui corrono lacrime. Il sarcasmo si fa groppo in gola quando lo sguardo legge un ideale profanato in menzogna; e l’ideale è lì bell’e scritto in grande, in Costituzione, e dice che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Ipocriti. Le lacrime corrono invece dagli occhi che vedono che cos’è davvero la pena, da noi, e che cosa produce, in dolore e disperazione. La Costituzione non scrive «carcere», non conosce nemmeno questa parola, dice «pena». Il carcere, da noi, non è più una pena, è una tortura.Da quanto tempo lo andiamo dicendo, da quando dura questa emergenza? Ogni volta si rinfocolano dibattiti, propositi, tentativi, anche manovre provvisorie, piccole piogge nell’immensa arsura, e intanto passano le stagioni, e i mesi e gli anni, e ancora la conta dei corpi chiusi in spazi da «meno che bestie» è quella di ieri e dell’anno scorso e degli anni prima, nonostante gli allarmi e i rossori di vergogna, e gli scandali dei suicidi. Nei 45mila posti stanno in 66mila, e dunque 21mila sono cacciati dentro in più, in una cornice cento volte descritta come allucinante e indegna. Incivile.«Incivile», sì. E non sono io a dirlo, è il presidente della Repubblica. Qualcosa che ci disonora, che ferisce la nostra credibilità fra i Paesi d’Europa e le nazioni del mondo. Ci sono parole forti, dentro l’appello rivolto al Parlamento dal capo dello Stato, eppure abbiamo la sensazione che questa forza non basterà a sfondare subito le barriere di riluttanza, e a far cadere il filo spinato delle procedure e delle maggioranze difficili dietro le quali sono state confinate le leggi d’indulto e di amnistia. A suo tempo ci siamo legati le mani, e ora il tempo s’è fatto breve, per questa Presidenza e per questa Legislatura, prossime alla fine.Se è così difficile svuotare, si potrebbe almeno cercare di riempire di meno? Da anni si studia la riforma del codice penale, e frattanto diluviano leggi e leggine che per dare importanza al loro precetto gonfiano le sanzioni detentive. Ma non s’era detto che bisogna «depenalizzare»? Un’idea ce l’avrei, di facile e rapida riforma: per tutti i delitti perseguibili a querela il carcere dovrebbe essere escluso. Lo trovo talmente evidente: se è l’istanza privata che decide se deve darsi castigo o no a un’offesa privata, vuol dire che l’interesse pubblico alla pena è un riflesso di scialbo sottordine, e che va procurato piuttosto il risarcimento, il ristoro della parte offesa.Per il resto, il pensiero che dietro le sbarre si va consumando un vero e proprio delitto permanente contro i diritti umani, trafigge la coscienza come una pugnalata. Forse ancora nell’opinione pubblica serpeggia l’idea che alla sicurezza non giova la clemenza, descritta come un pietismo buonista verso «questa piaga sociale di delinquenti», intendendo il carcere come una discarica dove si schiuma la feccia di una società virtuosa, la cui classe dirigente notoriamente pratica la temperanza, l’ascesi e la virtù. Non è così, lo sappiamo, e «i colpi cascano sempre all’ingiù», diceva Manzoni; «i cenci vanno all’aria».Ma allora il carcere, per i cenci, per quella schiera di fragili che sono inciampati in minori devianze, o vi sono stati sospinti dal disagio e dall’esclusione, dovrebbe essere vantaggiosamente sostituito da pene alternative, ampliate e normalizzate, "partecipate" se fosse possibile in contesti di utilità sociale. Basta con la crudeltà, non per clemenza, per giustizia.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: