Basta col reato di solidarietà
venerdì 27 maggio 2022

Cinquantasette. Ci sono voluti ben 57 mesi per arrivare all’archiviazione delle accuse infamanti contro don Mosé Zerai, eritreo e angelo dei profughi. Un record italiano. La procura di Trapani lo aveva infatti indagato per 'complicità' coi trafficanti di esseri umani che dalla Libia, dopo mesi di prigionia in condizioni inumane accompagnata spesso da torture e abusi di ogni tipo, mettono ancor oggi in mare su navigli precari e stracarichi i tanti disperati – uomini, donne e bambini – che vogliono chiedere asilo in Europa toccando il suolo italiano.

Una situazione paradossale, don Zerai veniva accusato per aver fatto quello che ha sempre fatto. Ovvero rispondere alle chiamate disperate dei profughi in partenza e avvisare prima i comandi centrali delle Guardie costiere di Italia e Malta e poi le Ong più vicine per salvare vite umane. Lo faceva anche con le persone migranti prigioniere nelle galere della Libia di Gheddafi e poi con gli sventurati caduti in mano a spietati predoni nel Sinai. Poiché, all’epoca, buona parte di chi ricorreva a lui proveniva dal Corno d’Africa, don Mosè avrebbe tradito due volte: prima di tutto il suo abito e la sua fede e poi il suo popolo.

Una notizia clamorosa, che come altri indagati, aveva appreso dai giornali (alcuni capaci di titoli taglienti come la lama di un coltello: vedremo se e come ripareranno). Da lì è iniziato un calvario, segnato da percosse morali, con veleni fuori e dentro la Chiesa, e che si è concluso solo ieri. Quando partirono le indagini era in pieno svolgimento, in Italia e in Europa, la campagna lanciata contro le Ong che soccorrevano in mare i naufraghi e contro chi dava aiuto ai profughi.

Simboli come don Mosè andavano colpiti. Era il tempo – ora un po’ passato, ma purtroppo non ancora finito del tutto – della 'guerra alla solidarietà' e del 'reato di solidarietà', per impedire per mare e per terra di andare in soccorso a chi cercava e cerca riparo nella Ue in fuga da guerre, persecuzioni e fame. Il clima era pessimo, inquinato da mefitica propaganda politica e messaggi di paura e d’odio contro i migranti e chi li aiuta.

Eravamo nel mezzo di una campagna elettorale infinita, giocata sulla pelle dei più deboli e culminata nelle elezioni politiche del 2018. Un clima in cui un procuratore delle Repubblica arrivò ad accusare duramente le Ong di complicità con i trafficanti libici pur ammettendo di non avere prove. Che non sono mai state trovate, anzi. Non indagini, ma autentici insulti contro gli umanitari sepolti sotto una valanga di successive archiviazioni.

Ci sono voluti 57 mesi per confermare quello che abbiamo sempre saputo, che il numero di cellulare di don Zerai è patrimonio comune di chiunque si metta in viaggio dall’Eritrea per fuggire da una dittatura che paradossalmente usa contro di lui le stesse accuse avanzate da parte della magistratura e da uomini politici italiani, assimilandolo ai suoi avversari più acerrimi: i trafficanti di uomini. Trafficanti di cui ancora oggi per la verità nessuno sa molto. Chi sta dietro i capobastone di cui girano le foto? A chi vanno i soldi che dalla Libia prendono la via di Dubai? Chi consente ai trafficanti di agire impunemente in Libia come in Africa? Aldilà delle lungaggini della giustizia, è difficile non vedere nella vicenda del sacerdote asmarino, a sua volta rifugiato, un tentativo (peraltro non riuscito) di intimidire la Chiesa e addirittura papa Francesco.

Un’illusione: non si tradiscono i poveri, la «carne di Cristo». E ora il vento pare cambiato. Un primo segnale è stata l’archiviazione nel novembre 2021 delle accuse di complicità con i trafficanti degli anziani coniugi triestini Gian Andrea Franchi e Lorena Fornasir, accusati a loro volta di far parte (nientemeno) di una rete di trafficanti per aver accolto, accudito e aiutato disperati in arrivo dalla rotta balcanica. Poi a maggio sono arrivate due assoluzioni a Roma. Dopo sei anni di processo è stata riconosciuta tre settimane fa l’innocenza dei volontari di Baobab e la settimana scorsa, dopo un iter giudiziario di sette anni, di quattro eritrei che aiutavano i connazionali di passaggio a Ponte Mammolo.

L’archiviazione del caso di don Mosè mette un ulteriore punto sulla questione del 'reato di solidarietà' anche se altre vicende restano aperte. Zerai ha affrontato la prova con pazienza, forza e speranza. L’archiviazione tardiva gli restituisce onore e dignità. Ha usato la sua vita e anche il suo cellulare per salvare vite umane. Mon lo ha spento in questi anni difficili, e non lo spegnerà mai.

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