venerdì 7 dicembre 2012
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È difficile capire perché nella vulga­ta economica un’impresa che an­tepone la massimizzazione della ric­chezza dell’azionista al benessere di tutti gli altri portatori d’interesse (la­voratori, clienti, comunità locale) do­vrebbe far meglio di un’impresa che già nasce con l’obiettivo di occuparsi del benessere di una più vasta cate­goria di soggetti (come le imprese coo­perative di consumo, di produzione e sociali, le casse rurali, le banche eti­che, la microfinanza non massimiz­zatrice di profitto). Anche l’uomo del­la strada intuisce infatti che ogni qual­volta si creano dei conflitti d’interes­se tra azionisti e clienti, azionisti e la­voratori, azionisti e comunità locale, è sempre il benessere dei primi ad es­sere privilegiato.
Alcuni studiosi han­no inventato complicate condizioni che garantirebbero il funzionamento di questo strambo 'teorema': come l’idea della 'concorrenza perfetta', con il suo implausibile quadro di con­torno (che gli studenti di economia sanno realizzarsi solo sotto condizio­ni limite); oppure meccanismi 'di re­putazione', in presenza di asimmetrie informative e istituzioni benevolenti perfette, che assicurerebbero la qua­dra tra creazione di valore economico e sostenibilità sociale ed ambientale.
Purtroppo la storia recente del setto­re bancario-finanziario insegna che il 'teorema' della superiorità sociale della banca massimizzatrice di profit­to viene continuamente 'falsificato' dalla realtà. Basti pensare alla fissa­zione sulle 'economie di scala' degli ultimi decenni, che ha creato banche troppo grandi per fallire, ma che ri­schiano ormai di diventare persino troppo grandi per essere salvate; alla difficoltà dei clienti di verificare la qualità dei prodotti finanziari; all’o­pacità e alla difficoltà di calcolare i ri­schi e un sistema di incentivi perver­so che spinge manager e trader a por­re in atto strategie che esaltano i ren­dimenti ponendo seri rischi di stabi­lità al sistema e alla loro stessa impre­sa finanziaria. Tutti elementi che ren­dono di fatto inapplicabili i fattori rie­quilibratori (concorrenza, reputazione, istituzioni forti).
Un rapporto della Global Alliance for Banking on Values fotografa il falli­mento di questo teorema confron­tando negli ultimi dieci anni la perfor­mance delle 30 maggiori banche mon­diali massimizzatrici di profitto (le co­siddette 'banche sistemiche') e delle 22 banche 'sostenibili' facenti parte dell’Alleanza e caratterizzate da un ap­proccio basato sui valori e sulla pro­mozione del bene comune. Il con­fronto è impietoso. Le banche soste­nibili fanno molto più banca tradizio­nale delle banche sistemiche con un rapporto medio tra prestiti e totale dell’attivo del 72,4% contro il 40,7% e un rapporto medio tra depositi e totale dell’attivo del 72,5% contro il 42%. Le banche sostenibili mantengono la lea­dership anche in quanto a crescita media dei prestiti (+19,7% contro +7,8%), dei depositi (+19,6% contro +10%) e del capitale proprio (+20,1% e +11,5%). Infatti, nonostante una re­munerazione del capitale leggermen­te inferiore (9,7% contro 10,8%) le banche sostenibili accumulano più capitale e hanno coefficienti di patri­monializzazione in media migliori (12,2% contro 10% di Tier 1 su attivo ponderato per il rischio). Insomma anche se non promettono rendimen­ti stellari agli azionisti, non sembrano avere problemi ad attirare capitali 'pa­zienti'.
Lo spaccato italiano conferma queste tendenze con banche etiche, cooperative e casse rurali che nel pe­riodo di difficoltà dell’economia han­no segnato tassi di variazione del cre­dito migliori (e minori sofferenze) del­le grandi banche massimizzatrici di profitto. Come ha spiegato bene Peter Blom, presidente della Global Alliance for Banking on Values e numero uno della Triodos Bank, l’approccio che con­sidera i profitti come un mezzo e non come un fine, tipico delle banche guidate da criteri di sostenibilità, si traduce in un maggior sostegno all’econo­mia reale.
Allo stesso tempo l’industria finanziaria si è allontanata troppo dal­l’obiettivo per cui è nata: indirizzare risorse economiche verso i migliori pro­getti di imprese. Il paradosso è che le banche che hanno dato miglior prova di sé rischiano ora di essere quelle più tartassate dalla riforma delle regole. I criteri di pondera­zione per il rischio favoriscono infatti le cartolarizzazioni e penalizzano il cre­dito come attività illiquida, come se la causa della crisi fosse il credito tradi­zionale, e non invece le cartolarizzazioni. I finanziamenti alle imprese sociali e del Terzo settore vengono poi considerati più rischiosi di quelli alle piccole e medie imprese e penalizzano le banche in termini di accantonamenti quan­do i dati ci dicono che il rapporto di rischio è esattamente contrario. Infine, un recente parere dell’Eba considera addirittura meno stabile il capitale delle ban­che cooperative per via della minore liquidità del mercato secondario, quan­do è assolutamente evidente che i legami tra soci e banca sono molto più for­ti e stabili proprio in presenza di banca non massimizzatrice di profitto e di mercati dei capitali meno liquidi.
Un presidente Abi del secolo scorso, Gior­dano dell’Amore, sosteneva che le banche fossero imprese particolari e do­vessero essere 'not for profit', al servizio della società. Ce n’è abbastanza nei dati descritti per sfidare certi paradigmi e riflettere sul serio su queste parole. Il problema di fondo, però, è se i regolatori a Bruxelles sono in grado di fare questa riflessione. Se la vigilanza unica europea significasse distruzione della ricchezza della biodiversità bancaria con l’appiattimento sul modello sconfit­to dalla storia e dalla crisi finanziaria globale ci sarebbe poco da stare allegri.
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