giovedì 22 aprile 2010
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Caro direttore,le chiedo un piccolo spazio per mettere insieme due notizie che ci dicono come, tra qualche mese, alcune abitudini di non poche famiglie italiane subiranno dei cambiamenti. Punto primo: a partire dal prossimo massimo campionato di calcio, le partite andranno in scena (è proprio il caso di dire così) all’ora del pranzo domenicale; motivo: la vendita dei diritti televisivi a Paesi del continente asiatico. Punto secondo: a partire dal prossimo autunno, la Rai – servizio pubblico – dopo 54 anni smobiliterà (come già ben annunciato da Avvenire) quello che resta della Tv ragazzi (leggi «Melevisione» e «Trebisonda»); motivo: gli indici di ascolto non ne giustificano il mantenimento. Mi chiedo: nelle sedi e nelle menti in cui vengono decise queste «programmazioni» contano ancora almeno un’unghia le esigenze di una normale famiglia? Oppure, il fatto che il momento topico della settimana sportiva vada a collidere con il momento più riunitivo a livello familiare e, ancora, il fatto che i nostri bambini non abbiano più il diritto di godere di un’ora e mezza di serenità e semplicità confezionata apposta per loro, sono solo vecchi sentimentalismi in confronto all’inesorabile logica del denaro sonante? Grazie..

Stefano Ziliani, Monticelli D’Ongina (Pc)

Il calcio oramai ci ha assuefatti a regole modellate sulle esigenze mercantili della tv a pagamento. Il riferimento è sempre più lo “show business”, l’intrattenimento che produce affari; non certo lo sport di passione e sacrificio. Chi è affascinato dal gioco, continua a seguirlo, sopportando le forche caudine sempre più impervie cui è sottoposto. Chi non ci sta, o non ci sta più, ha solo le armi del telecomando e della rinuncia all’abbonamento (o all’acquisto del singolo evento). Diverso il caso della tv dei ragazzi. Come abbiamo notato pochissimi giorni fa con Gigio Rancilio in relazione alla collocazione mortificante del film "Katyn", mandato in onda sabato scorso su RaiNews, la qualità di «servizio pubblico» della Rai – connaturata all’idea stessa di quella che continuiamo a pensare e chiamare la nostra «radiotelevisione di Stato» e che viene puntualmente rivendicata quando si bussa al nostro portafoglio per farci pagare l’abbonamento/canone/tassa – è percepita purtroppo con fatica, nell’incresciosa alternanza di proposte di grande livello e di mortificanti programmazioni. Come pretendere, tanto per non fare un esempio casuale, che si considerino di «servizio» le trasmissioni che affollano il pomeriggio Rai, copie carbone di quelle della tv commerciale, contenitori di chiacchiere e pubblicità? E, poi, i bambini non meritano proprio qualcosa di meglio di cartoni animati spesso di basso conio? Non sono molte – ahinoi – le repliche coerenti. Risposte davvero convincenti comporterebbero di ritornare su decisioni che io continuo – e che tantissimi utenti e tantissime famiglie continuano – a giudicare inadeguate e in certi casi indecorose.
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