venerdì 12 aprile 2013
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Napoli è fatta di estremi e pare non conoscere vie di mezzo. Per certi aspetti è medievale: qui puoi sentire il profumo del sangue e quello delle rose, perché è capace di tante brutture e, insieme, di gesti toccanti perché nobili e gentili. Nelle acque davanti a Coroglio – siamo a Bagnoli, dove le rovine della Città della Scienza quasi fumano ancora – sarà messa una boa così che i catamarani della Coppa America possano virare e rendere omaggio a una comunità addolorata. È la bellezza e l’insufficienza dei segni. Come è segno, con la stessa portata, bello ma insufficiente, il provvedimento del magistrato che mette sotto sequestro quell’area di Bagnoli dove sorgevano gli impianti industriali dell’Italsider e dell’Eternit. Dalle parole della procura napoletana: (interscambio dei ruoli tra controllori e controllati, scadimento degli obiettivi di bonifica, conflitto di interessi degli enti pubblici) emerge un intrico complesso di responsabilità più avviluppato di tutti i tubi e le condotte di quei complessi industriali che dovevano essere bonificati per restituire finalmente quest’area alla città. Negli anni Sessanta, a partire dai Campi Flegrei per spingersi quasi fin sotto Pozzuoli a ovest della città, nasce con queste industrie pesanti la grande illusione, la stessa che in Italia assaporavano a Taranto o a Gioia Tauro. Infilate una dopo l’altra, l’Italsider, l’Eternit, poi l’Olivetti e poi ancora Pirelli e tutte le altre piccole industrie dell’indotto. Si realizzava il sogno del posto di lavoro senza la necessità di dover prendere un treno per emigrare verso le fabbriche del Nord. Adesso il lavoro era sotto casa, a portata di mano. Dai balconi di Bagnoli le donne guardavano i mariti che si recavano agli altiforni. Sentivi per le strade l’odore del ragù e quello dell’acciaio. La città cambiava faccia. Napoli fatta di pini, mare e mandolini diventava città industriale, in movimento, rutilante, operosa, frenetica, come una visione futurista. Poi la delusione. Con il paradiso che si trasforma: «Coroglio è un inferno di fumo e carbone – canta Eduardo Bennato – e Mangiafuoco ci ha il quartier generale, fa il diavolo a quattro, minaccia la gente, si vende la spiaggia al miglior offerente». La città non può più reggere quell’impatto ambientale che, imprevidenti, nessuno prima aveva calcolato. Nasce una coscienza ambientalista che reclama maggiori tutele, e lo scenario poco alla volta si smantella. Restano i ruderi da bonificare e da rimuovere per liberare l’area e costruire un sogno nuovo. La Città della Scienza è il primo progetto capace di cullare questa speranza, e Napoli spera perché, oltretutto, ha fame di spazi. Napoli non ha ampie architetture. La villa comunale gloriosa all’epoca è un piccolo fazzoletto di verde che non basta per tutti. Le mani sulla città, negli anni, per la mancanza di efficaci piani regolatori, si sono allungate sulla provincia. Da Est, con i paesi vesuviani, fino a Pozzuoli è una sola distesa di case. Alle spalle Napoli ha la collina del Vomero con i suoi casermoni e un altro piccolo fazzoletto, quello della Villa Floridiana. Davanti, per fortuna, è rimasto il mare. Germina allora un’altra speranza, un altro «sogno di Bagnoli», ma senza ciminiere, senza altiforni, senza fumi, senza lamiere: un’isola in questo mare di cemento destinata a spazio ludico, a nuova agorà, dove incontrarsi, innamorarsi e portarci i bambini. Ma la storia si ripete. Su Bagnoli è possibile metterci le mani. Beffardo, ancora Bennato la mette in vendita: «Ma che occasione, che affare, vendo Bagnoli chi la vuol comprare: colline verdi, mare blu, avanti chi offre di più». In un certo qual modo Bagnoli è andata venduta già a un primo incanto. I magistrati parlano di una truffa di 107 milioni di euro per aver fatto credere in chissà quali bonifiche. Oggi è un’altra delusione, perché il segno bello della procura, se non seguito da altre provvedimenti di una classe politica responsabile, resterà senza conseguenze. E Bagnoli resterà un’isola: l’isola che non c’è.
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