mercoledì 8 giugno 2011
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Il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, lo ha indicato esplicitamente nelle recenti Considerazioni finali: le piccole imprese e i gruppi "familiari" devono aprirsi all’ingresso di esterni, capitali o persone fisiche. La Borsa, però, tradizionale strumento per acquisire nuove risorse finanziare, in questi giorni ha incassato alcuni colpi dolorosi. Per Ferragamo, che ha appena ricevuto da Borsa Italiana il via alla quotazione di circa il 25% del proprio capitale, Prada si prepara a un positivo debutto sul mercato di Hong Kong, Armani annuncia il proprio disinteresse al ritorno alla quotazione, mentre, dopo la rinuncia di altre due possibili matricole, anche Moncler alla fine ha preferito vendere la quota di controllo a Eurazeo, società di investimento quotata a Parigi, piuttosto che entrare in Piazza Affari. Occorre allora ribadire un punto. Aprirsi al confronto è, per un’azienda che voglia operare con successo sul mercato, fondamentale. A partire dalla proprietà e dall’impostazione strategica. Tuttavia, bisogna prendere atto della dinamica reale che quell’importante strumento di scambio di quote proprietarie, quale è la Borsa, ha vissuto nel nostro Paese. In Italia sono sempre state poche le aziende interessate alla Borsa. E un numero non indifferente di chi vi è entrato, anche durante l’ultimo periodo, ha poi deciso per il delisting,lasciando il mercato pochi anni dopo esservi approdato. Spesso, inoltre, accade che il corso del titolo non sia strettamente correlato a considerazioni attinenti l’economia reale – e dunque le capacità dell’azienda in uomini, idee e risultati – ma risenta molto più del lecito da considerazioni di carattere speculativo. Infine, nonostante i molti tentativi, non è mai definitivamente decollato un vero mercato borsistico aperto – per costi, impegni burocratici e amministrativi richiesti e struttura – a imprese di minori dimensioni.È ancora radicata e diffusa nella realtà imprenditoriale nostrana la motivata sensazione che la Borsa sia una cosa per pochi, con intenti fortemente speculativi e prospettive di breve periodo. E, comunque, costosa e poco efficace per chi voglia intraprendere la via della quotazione ai soli fini della crescita aziendale. Altre forme di finanziamento più tradizionali, come il canale bancario, continuano peraltro a funzionare, pur nelle accresciute difficoltà e, come apprezzato vantaggio, senza alcuna "ingerenza" nella governance aziendale. Quanto poi al private equity, altro caratteristico strumento di investimento finanziario nell’impresa, il passo da compiere è ancora più lungo: perché il timore che aprire il proprio capitale a investitori terzi, con conseguente ingresso di "esterni" negli organi di governo aziendale, significhi piegare l’attività imprenditoriale a un orientamento temporale di breve periodo e all’obbligo di crescere a tutti i costi per garantire l’uscita degli investitori al tempo convenuto, con un cospicuo ritorno sull’investimento fatto, è quanto mai motivato, se si guarda alle esperienze realizzate. Del migliaio di imprese che sono state interessate, negli ultimi dieci anni, da operazioni di private equity, la maggioranza ha bruciato ricchezza e posti di lavoro.Poiché tuttavia non c’è nulla di automatico nel rapporto tra impresa, soprattutto di piccola e media dimensione, e mondo della finanza, occorre allora promuovere un profondo cambiamento in chi vuole avvicinare questo specifico segmento imprenditoriale. La finanza deve servire l’impresa, non viceversa. «Non visitare le imprese, così non corri il rischio di innamorartene» sembra consigliasse Enrico Cuccia. Per entrare veramente in sintonia con l’impresa, oggi occorre ribaltare completamente la prospettiva: essere più imprenditori e meno uomini di finanza.
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