sabato 13 marzo 2010
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In tempi di dibattiti non elettorali, ma sulle procedure elettorali, l’opinione pubblica è distratta rispetto a questioni grandi o piccole, che toccano la vita dell’uomo della strada e sulle quali si vorrebbe una maggiore attenzione di governo e Parlamento. Una questione piccola, ma poi non tanto, è la riforma dell’accesso alla professione forense, in discussione al Senato e sulla quale l’opinione pubblica è per nulla informata. Eppure, si tratta di una riforma che tocca, almeno potenzialmente tutti; che incide sul dramma nazionale di una giustizia lenta ed inefficace. In particolare, l’opinione pubblica non è stata informata dell’infelice proposito del legislatore di procedere, tra le materie oggetto di prova per diventare avvocato, alla soppressione di quella che riguarda la disciplina giuridica del fenomeno religioso, sia individualmente sia collettivamente considerato. Detto altrimenti, tra le materie da portare all’esame non comparirebbe più l’antica disciplina denominata Diritto ecclesiastico. Poco male, dirà qualcuno, se si considera l’importanza di discipline che hanno assunto solo di recente un particolarissimo rilievo, come ad esempio il diritto dell’Unione europea. Ma siamo proprio sicuri che il male sarà poco? Personalmente ne dubito, e fortemente. Prescindo dall’ipotesi, quasi fantascientifica, che la ventilata soppressione sia dovuta ad accanimenti laicistici. Penso piuttosto alla superficialità del riformatore e ad una cultura prevalentemente dell’avere, dell’individuo proprietario, della produzione, che fa perdere di vista anche alla categoria forense la complessità della società, che non è solo produzione e consumo, e nella quale tutto si tiene, anche ciò che non tocca la proprietà o l’economia, anche ciò che attiene alla cultura ed allo spirito. A difesa di una disciplina della quale sono stati cultori tra i più illustri giuristi italiani tra Ottocento e Novecento – basti pensare, tra i tanti, a Ruffini, Scaduto, Jemolo, Giacchi, Dossetti, d’Avack –, vorrei avanzare solo due succinte considerazioni. La prima riguarda il fatto che in Italia, Paese di tradizioni cattoliche ed a sistema concordatario, gli ambiti della vita materiale che entrano in rilievo dal punto di vista del diritto ecclesiastico sono molti e, anche dal punto di vista delle professioni legali, assai rilevanti. Basti pensare che ancora oggi la maggioranza degli italiani si sposa canonicamente, che gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti sono alcune decine di migliaia, che il novantuno per cento degli studenti segue l’ora di religione, che un numero notevole, sicuramente assorbente, dei beni culturali sono di carattere religioso e moltissimi di proprietà ecclesiastica. È complessivamente uno spaccato di vita nazionale di assoluto rilievo dal punto di vista anche giuridico. La seconda considerazione riguarda il fenomeno nuovo delle immigrazioni, che tutti guardano con timore, le quali portano in Italia religioni nuove, regole religiose ed etiche diverse da quelle a noi consuete. Gli amministratori pubblici si scontrano, ogni giorno di più, con queste novità: si pensi solo alle interdizioni alimentari in rapporto alle mense delle scuole, degli ospedali, delle carceri, delle caserme. Lo stesso accade per i giudici. È un settore completamente nuovo per il diritto ecclesiastico, tutto da studiare, approfondire, regolamentare; è una specialità giuridica imprescindibile se si vuole che il fenomeno immigratorio sia governato e non subìto. E noi vogliamo fare come lo struzzo?
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