martedì 13 gennaio 2009
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È oramai opinione generale che l’am­ministrazione della giustizia non funzioni come dovrebbe. L’inefficienza ed i tempi lunghi per giungere ad una sentenza definitiva, e più ancora per ot­tenerne l’esecuzione, oltre che violare il diritto ad agire in giudizio, sono un co­sto aggiuntivo che pesa sulla produzio­ne e scoraggia gli investimenti. Ancor più sconcerta la personalizzazione e l’enfasi di iniziative penali ricche di an­nunci e di effetti immediati, che si pro­ducono al di fuori del processo, ma po­vere di risultati alla verifica nel proces­so. Inoltre il principio di buon anda­mento, che dovrebbe riguardare anche l’organizzazione giudiziaria, non ne ca­ratterizza le strutture ed il funziona­mento degli apparati. Questa situazione negativa incide sui cittadini e sulla funzionalità delle isti­tuzioni, ma mortifica anche il gran nu­mero di magistrati impegnati quotidia­namente a rendere giustizia senza ri­cercare notorietà. Il grado di inefficienza nell’ambito giu­diziario forse non è diverso da quello che affligge altre funzioni ed ammini­strazioni pubbliche. Ma è più avvertito dai cittadini. La giurisdizione incide di­rettamente su beni ed interessi essen­ziali: la libertà e dignità personale, la pu­nizione dei reati, la garanzia che i pro­pri diritti siano assistiti dall’effettiva pro­tezione offerta da un giudizio tempe­stivo, reso in conformità alla legge da un giudice competente, indipendente ed imparziale. La riforma della giustizia è da molto tempo nell’agenda politica. Può tocca­re i rami alti, quelli di maggiore impat­to politico e nella comunicazione, ma di effetto indiretto e differito sull’efficien­za: la composizione del Consiglio su­periore della magistratura, l’ordina­mento giudiziario e la più netta separa­zione tra magistrati del pubblico mini­stero e giudici. Può toccare i rami bas­si, che richiedono analisi ed interventi più complessi e di minore rilievo co­municativo: l’organizzazione e la fun­zionalità degli uffici, la produttività dei magistrati e degli apparati, la valuta­zione della loro professionalità, la ra­zionalizzazione delle procedure ed il miglior uso delle risorse, i rapporti con l’avvocatura e le altre professioni che mediano tra cittadino e amministra­zione della giustizia. Se l’attenzione si concentra sul Consi­glio superiore della magistratura, deve essere chiaro l’obiettivo: l’indipenden­za della magistratura, per assicurare u­na garanzia istituzionale dell’indipen­denza dei giudici e del pubblico mini­stero. Questo obiettivo è incompatibile con qualsiasi formula di governo della magistratura. Sia di un governo politi­co della magistratura, mediato dalla prevalenza o dal dominio dei compo­nenti del Consiglio di nomina politica. Sia di un governo autonomo o autogo­verno della magistratura, secondo for­mule che si sono affermate sino ad af­fidare nel tempo al Consiglio anche u­na sorta di rappresentanza politica del­la magistratura. Un ritorno del Consiglio, forte ed au­torevole, alle funzioni di garanzia isti­tuzionale può seguire sia i percorsi del­la legge ordinaria, partendo da una in­cisiva riforma del sistema elettorale che tenga le correnti fuori dal circuito isti­tuzionale, lasciandole alle dinamiche interne dell’Associazione magistrati, sia i percorsi della revisione costitu­zionale. In quest’ultima prospettiva criteri di composizione analoghi a quelli previsti per la Corte costituzionale, e quindi la nomina di una parte dei componenti ad opera del Presidente della Repub­blica, sono contenuti già in vecchie e dimenticate proposte. I due percorsi non si escludono reciprocamente, ma neppure si cumulano necessariamente. Si può dunque discutere per operare u­na ragionevole scelta politica, senza che si configuri o si sospetti un attentato al­l’indipendenza della magistratura.
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