giovedì 6 dicembre 2012
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X Factor 2012 è arrivato alla fine: una lunga maratona in crescita di ascolti dalle audizioni, passando per il bootcamp, fino alla gara vera e propria. Il programma è piaciuto e ha attratto sempre più il pubblico pagante di Sky, che con fedeltà lo ha seguito in diretta ogni giovedì sera. Se lo abbiamo guardato senza ingenuità non abbiamo potuto evitare di notare la presenza massiccia, e a volte intrusiva, degli autori che hanno fatto un grande lavoro per dare credibilità e un’allure di spontaneità a ciò che era già deciso da tempo. Eppure ha appassionato e fatto tanto parlare di sé.  Il buono di XF è che non è stato 'Il grande fratello'. Ne ha condiviso in parte il meccanismo vojeuristico di guardare dei personaggi segregati in un loft, ma ci è stata risparmiata la diretta, il sempre-connessi per favorire dei camei quotidiani postprodotti, nei quali il montaggio accurato non ha lasciato nulla all’improvvisazione né al cattivo gusto. Cosa è piaciuto di XF, allora? Certo, dobbiamo mettere in conto tutti i meccanismi di identificazione che la sapienza degli autori è riuscita a suscitare, a partire dalla scelta dei candidati. Ormai è chiaro come sia questa la chiave di successo di ogni talent show: costruire un panel di partecipanti il più stratificato possibile all’interno del quale la maggior parte degli spettatori possa scegliere un tipo per cui tifare e con cui identificarsi. Eppure la chiave del successo di XF, unica e particolare, risiede nel fatto che i partecipanti, molti anche giovani, si siano messi al lavoro. Non siamo stati costretti a guardarli mentre sul bordo di una piscina mostravano mollemente i loro corpi oppure mentre litigavano davanti al frigorifero della cucina condivisa o ammiccavano nelle stanze sotto gli occhi delle telecamere a infrarossi. Li abbiamo invece visti prendere sul serio una passione, porre il proprio desiderio come la condizione di partenza per un lavoro che attendeva dei maestri e delle guide. È emersa poca presunzione, anche davanti alle telecamere, piuttosto ascolto attento dei vocal coach riconosciuti e rispettati come autorevoli, ossia come fonti di aiuto da cui attingere il più possibile. XFactor è stato a suo modo una scuola, con allievi e docenti, prove da superare, voti e giudizi, promozioni e bocciature. Non facciamoci ingannare, però. Esiste una differenza fondamentale con ciò che accade nelle aule vere tutti i giorni: chi si è proposto come candidato alle audizioni aveva già in sé un interesse che preesisteva, che lo portava a rendersi disponibile a un lavoro che lo conducesse alla soddisfazione della sua ambizione. A scuola, in quella vera, invece l’interesse spesso è ancora tutto da suscitare, l’ambizione da far emergere, la meta da indicare. Per questo l’insegnante non è riducibile a un coach, è molto di più. In primis è lui a dover essere ambizioso e desideroso di approfondire quella stessa conoscenza che si trova a trasmettere, in un lavoro personale che coinvolga anche gli studenti. E poi la meta deve essere anche sua, per risultare una proposta credibile. In classe non si può fare a meno dell’I-Factor, il Fattore-Insegnante. È lui a offrire non una scienza trasmessa in modo verticale dentro una prospettiva gerarchica, ma una comunità dove il lavoro è ambizioso, perché ha saputo identificare il suo ambito, e condiviso, perché si tratta sempre di un lavoro-su-lavoro, ossia un luogo dove ciascuno deve metterci la sua parte. Ed è l’insegnante che propone il senso, ossia indica una direzione al moto. Per una scuola così ogni ragazzo farebbe un’audizione, dandoci l’anima. In una scuola così i ragazzi entrerebbero cantando.
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