Ascoltiamo questi ragazzi in marcia e in cammino
domenica 25 marzo 2018

Sergio (nome di fantasia, persona reale) è un giovane di 22 anni del nordest italiano. Laureando, al venerdì sera torna a casa e divide il suo tempo tra l’incontro formativo per aspiranti animatori parrocchiali, in cui i ventenni si trovano a formare i sedicenni, perché di adulti pare non ce ne siano; volontariato al campo sportivo per tagliare l’erba, tracciare le linee bianche per la partita ed essere pronto con il defibrillatore; Messa alle 10, doposcuola a bambina in difficoltà.

L’Italia e il mondo intero sono pieni di Sergi, ma li vede soltanto chi li vuol vedere e li ascolta chi è abbastanza umile e curioso da vincere il pregiudizio che attanaglia troppo mondo adulto dai tempi dei sumeri: da questi giovani non possiamo aspettarci niente di buono perché sono mollaccioni, irresponsabili e non ascoltano ed imitano noi, gli adulti, che invece abbiamo... Già, che cosa oggi abbiamo di interessante, decisivo, travolgente, appassionante da dir loro, capace di infiammare le loro esistenze?

Oggi è la Giornata mondiale della gioventù numero 33, niente male per un appuntamento che papa Wojtyla volle, puntando i piedi, tra lo scetticismo generale («d’accordo, accontentiamolo, tanto sarà un flop e tra un paio d’anni non ne parleremo più: ai giovani una cosa del genere non può interessare affatto»). È una Giornata speciale perché precede di poco il Sinodo di ottobre dedicato proprio ai giovani; perché nei giorni scorsi 300 giovani di tutto il mondo si sono trovati a Roma per contribuire a elaborare un documento che descrive la condizione, diversa quanto diverso è ancora il mondo, dei giovani dei cinque continenti.

Nella fase di preparazione sono stati coinvolti oltre 15 mila giovani. E tra le tante cose che si trovano in un testo complesso (disponibile anche in italiano sul sito della Santa Sede) ce n’è una che inchioda gli adulti, dagli antichi sumeri agli italiani contemporanei: i giovani chiedono "veri accompagnatori, guide autorevoli".

La sensazione è che a un giudizio purtroppo spesso aspro e drastico degli adulti sui giovani, non corrisponda una speculare perentorietà dei giovani verso gli adulti, anzi. Semmai c’è un rammarico: chi ci aiuta a crescere e a camminare? Così Sergio e i suoi amici fanno da soli, a volte con il parroco che deve dividersi tra quattro comunità e si accorge, probabilmente, che se i giovani tutto sommato si arrangiano da soli, sono gli adulti a guardarsi attorno smarriti.

Bisogna stare in ginocchio per camminare a lungo, ci dicevano gli "accompagnatori e guide" di un tempo. Ieri, sabato, migliaia di giovani negli Stati Uniti e in tutto il mondo ci hanno dimostrato pure che occorre sdraiarsi per potersi rialzare e restare in piedi.

Negli Usa hanno manifestato contro il possesso e l’uso scriteriato delle armi, che non solo uccidono ogni anno dozzine di innocenti, ma contribuiscono alla crescita di una cultura della ritorsione, della vendetta e della morte come primo e perfino unico modo di risoluzione dei problemi, personali e sociali. Anche a Milano in Galleria Vittorio Emanuele i Giovani per la Pace si sono distesi a terra di colpo, come morti, nel più classico dei flash mob; e come la loro ci sono state circa 800 manifestazioni simili in tutto il mondo, a sostegno dei coetanei americani. Poiché in genere il mondo adulto, in possesso delle agenzie culturali (televisioni, giornali, case editrici...), si occupa dei giovani solo se può abbinarvi il sostantivo tanto banale quanto ansiogeno – redditizio in termini di ascolti – 'emergenza', sarebbe giusto, perché aderente a quella realtà che dovremmo saper raccontare per intero, occuparsi dei giovani della Gmg e dei flash mob, quelli con intenti positivi.

Per chiederci chi sono e da dove sbucano, e scoprire probabilmente che sono sempre stati accanto a noi, ma non sapevamo vederli, e quindi ascoltarli. È un mondo complesso e, per essere 'venduto', è stato sempre ridotto a macchietta? Affrontiamo la complessità, dipaniamola, sveliamola. E soprattutto guai, guai, guai parlare dei giovani senza interpellarli, senza guardarli negli occhi, senza ascoltarli. A mezzo secolo esatto dal 1968, almeno questo dimostriamo di averlo imparato.

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