sabato 2 luglio 2016
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Una proposta semplice (e temuta) per una novità difficile Una delle novità più controverse introdotte dalla legge sulla buona scuola (la legge 107 del 13 luglio 2015) è quella relativa alla valutazione dei docenti. La norma infatti ha previsto lo stanziamento di una certa somma di denaro – non grandi cifre, per la verità – attraverso cui incentivare i docenti migliori di ogni scuola. Secondo quanto comunicato nei giorni scorsi dal Ministero dell’Istruzione, i fondi sono pronti e saranno inviati nei prossimi giorni alle scuole attraverso un’accelerazione delle procedure. Il problema, però, verte tutto sui modi in cui possano essere individuati, appunto, i professori “migliori”. Non c’è infatti una cosa più difficile che valutare chi insegna. La “produttività” che viene quantificata per altre professioni nell’insegnamento non può essere legata ai risultati, né in termini di voti, perché se così fosse ci sarebbe l’inevitabile tendenza ad alzarli, né in termini di misurazione oggettive di conoscenze e competenze, come avviene ad esempio con le prove Invalsi (somministrate da un ente terzo), perché sappiamo che il raggiungimento da parte degli studenti degli obiettivi è spesso legato alle condizioni di partenza, vale a dire al contesto socio-culturale di provenienza (e dunque non dipende in toto dai docenti: non sarebbe giusto premiare quelli che operano in condizioni avvantaggiate e penalizzare coloro che lavorano in situazioni svantaggiate).  Valutare gli insegnanti è dunque difficile, dicevamo, ma non impossibile. Si tratta di individuare dei criteri che abbiano senso rispetto alle specificità della funzione docente. Il Ministero dell’Istruzione, per parte sua, ha scelto di non farlo e ha delegato tutto alle singole scuole, invitate a nominare dei comitati interni di valutazione ai quali spetta anche fissare i parametri. È l’autonomia scolastica, si dirà. Ma a volte – come in questo caso – la tanto sbandierata autonomia sembra essere la foglia di fico con cui coprire la fatica della politica ad assumersi in prima persona la responsabilità – e magari l’impopolarità – di decisioni scomode. Meglio dunque lasciare che i vari istituti si arrangino, come hanno fatto in questi mesi, chiedendo però che trasmettano al Ministero, per conoscenza, le procedure adottate: così magari in futuro lo stesso Ministero potrà attingere qua e là degli spunti di buone prassi (come si dice in gergo) da estendere a tutti. Fatto sta che i vari comitati di valutazione in questi mesi sono sembrati annaspare un po’, indecisi sul da farsi e timorosi di innescare una conflittualità interna alle scuole tra insegnanti premiati e non premiati. La tendenza generale sembra essere stata quella di stilare tabelle che rendano l’operazione il più possibile oggettiva e dunque non contestabile. Per lo più la decisione è stata quella di attribuire il bonus (il quale – in base alle maglie più o meno larghe stabilite localmente – andrà, su base annuale, da qualche centinaio di euro a un’intera mensilità in più al massimo) a coloro che si assumono compiti e mansioni aggiuntive o che si impegnano nei cosiddetti progetti (vale a dire potenziamento didattico, attività integrative, concorsi ecc.). In questa impostazione però c’è un rischio: come sa bene chi nella scuola lavora, non è detto che i docenti che si dedicano a tante attività collaterali siano i migliori in classe. Anzi, spesso sono quelli che in classe ci stanno meno. Che fare allora? Non ho timore a rilanciare l’idea più semplice, ma anche più temuta da molti colleghi: dobbiamo avere il coraggio di coinvolgere gli studenti nella nostra valutazione. Che siano loro ad avere voce in capitolo. Nelle università si pratica da diversi anni la valutazione della didattica attraverso appositi questionari somministrati agli studenti alla fine di ogni corso (anche se tale attività di valutazione non determina incrementi retributivi). Ai ragazzi vengono poste domande di questo tipo: quanto il docente espone gli argomenti in modo chiaro? quanto è capace di stimolare l’interesse verso la disciplina? quanto è disponibile per chiarimenti e ulteriori spiegazioni sugli argomenti che presentano eventuali difficoltà? quanto è corretto e disponibile nel rapporto con la classe? quanto sei complessivamente soddisfatto di come è stato svolto questo insegnamento? e così via.  A iniziative di questo genere – vale a dire all’ipotesi di sentire il parere degli studenti – i docenti spesso si dicono contrari, temendo che magari vengano valutati peggio quelli severi e rigorosi e meglio quelli lassisti e permissivi. Ma non è così: i ragazzi sanno benissimo discernere – e riconoscere – la serietà; sanno capire le motivazioni sottese a certi gesti e comportamenti. E l’esperienza dice che preferiscono un bravo professore esigente a un cattivo professore accomodante.
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