mercoledì 13 marzo 2013
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Non finisce mai, il tristissimo fenomeno degli imprenditori suicidi per le difficoltà economiche. Ma stavolta non vorrei parlare di loro, cioè del 'male', ma di un rimedio che avevamo chiesto anche da queste colonne, e che ora apprendiamo essere praticato ed essere efficace: avevamo chiesto che nascesse una associazione per l’ascolto di questi imprenditori in difficoltà, l’ascolto e l’aiuto psicologico e, nei limiti del possibile, economico, e ora apprendiamo che l’associazione è nata, è in piena attività, e i risultati che oggi può esporre sono fortemente consolatori. Questo è il 'bene'. Perché, purtroppo, il bene passa inosservato. Parlarne, si pensa, è un’operazione giornalisticamente svantaggiosa. Questo giornale dimostra che non è così.Ma in ogni caso il vantaggio di parlare del bene sta da un’altra parte, sul piano etico: se è nata questa associazione, e se ottiene buoni risultati, ne possono nascere altre, e i risultati possono moltiplicarsi. Ogni volta che si ammazza un imprenditore che non riesce più a far quadrare i conti, il danno è enorme per tutti: lui, la sua famiglia, la sua azienda, i suoi dipendenti, ma anche la società. Perché si tratta, molto spesso, di uomini, padri, padroni, amministratori, sensibili e generosi, orgogliosi del loro ruolo di datori di lavoro, fornitori di uno stipendio col quale si mantengono le famiglie dei dipendenti: il senso di fallimento che li opprime deriva dal vedere che la loro crisi diventa la crisi di queste famiglie. Qualcuno ha scritto che «si uccidono per altruismo». Sarei d’accordo, se non temessi che una formula del genere può essere letta da qualcuno come giustificativa o addirittura elogiativa. La settimana scorsa uno di questi padroni, prima di uscire dalla vita, ha voluto pagare lo stipendio a tutti i dipendenti, con soldi personali visto che non c’eran più quelli dell’azienda. È un danno sociale che l’associazione della quale parlerò non sia riuscita ad agganciarlo e a trattenerlo fra noi. Se un tale uomo si sente fallito, con lui falliamo anche noi. La regione dove questo fenomeno tocca le proporzioni più allarmanti, il Veneto, ha istituito un team di psicologi, che stanno in ascolto tutte le ore del giorno e della notte, al numero verde 800.33.43.43, per rispondere alle chiamate degli imprenditori in crisi. La fondazione è nata nove mesi fa. In nove mesi (i dati escono adesso) le chiamate sono state 420. La chiamata stabilisce il contatto, e scopo degli psicologi è che il contatto non s’interrompa più, che chi chiama resti agganciato. I casi seguiti ancor oggi sono 150. Non si vuol qui lanciare il sospetto che, senza questo contatto, avremmo 150 suicidi in più. Certo è però che confidare un problema significa spartirlo: è come se il problema non fosse più soltanto tuo, tutto tuo. L’associazione a sua volta si rivolge alla Caritas, per cercare aiuti economici, ai Comuni, agli istituti di microcredito. La condizione dell’impresario in crisi viene studiata e reimpostata: vedo che un imprenditore che aveva un macchinone per sé e uno per il figlio, adesso usa l’autobus, non è più padrone ma fa l’operaio, e dello stipendio mensile lascia una fettina per la riduzione dei debiti. Ma è (parola che usa lui) «felice». Che cos’è che lo rallegra? L’amore. Sente l’amore intorno a sé, la preoccupazione, la voglia di aiutarlo. Sorpresa (quanto siamo ignoranti, nel guardar dall’esterno queste cose!), scopre l’amore nella famiglia. Perché in molti casi non è lui, l’imprenditore inguaiato, a far la prima telefonata. Sono i suoi famigliari, a sua insaputa. Moglie, figli. Lo vedono affranto, scontroso, isolato. E fanno, per amore, il gesto che lui non osa fare, per orgoglio. Non so se, passata la tempesta della crisi, le associazioni di questo tipo si scioglieranno. Sarebbe un male. Non sono utili per qualche anno. Sono utili sempre. ​
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