Eternit deriva dal latino aeternitas, eternità. Quando lo brevettò nel 1901, il suo inventore, l’industriale austriaco Ludwig Hatschek (1856-1914), coniò questo neologismo per rimarcare l’elevata resistenza e la lunga durata di questo nuovo materiale da lui creato: un impasto di cemento e amianto. Oggi quello che una volta era considerato un pregio – la persistenza nel tempo – è diventato un vero incubo ecologico e sanitario. Paradossalmente, il riferimento al termine "eternità" si è trasformato da valenza positiva a caratteristica negativa. Eterni rischiano di restare solo i danni agli uomini e all’ambiente, mentre assolutamente (e per certi versi assurdamente) limitata nel tempo sembra essere la possibilità che chi ha consapevolmente continuato a provocarli possa essere chiamato a risponderne legalmente ed economicamente.
L’amianto, o asbesto, è un minerale assai comune in natura. Ne esistono diversi tipi (amianto bianco, amianto bruno, amianto blu i principali), tutti però caratterizzati da un’elevata resistenza alle alte temperature e da una struttura fibrosa che li rende adatti alla fabbricazione di oggetti ignifughi e soprattutto all’impiego come materiale da costruzione. Proprio questo ultimo settore è quello in cui la produzione industriale si è maggiormente sviluppata, creando un mercato in continua espansione sino agli inizi degli anni Novanta, quando la commercializzazione e l’uso di prodotti contenenti amianto è stata proibita per legge. Un provvedimento giusto, ma assai tardivo, per evitare gravi irreversibili danni alla salute e all’ambiente.L’estrazione in cave a cielo aperto del minerale, il processo di lavorazione industriale e il deterioramento legato all’usura del tempo dei composti di fibro-cemento usati nell’edilizia (tegole, pavimenti, tubazioni) provocava il rilascio sistematico nell’aria di minuscole particelle del materiale, che venivano inalate cronicamente dai lavoratori e delle persone che con esse entravano in contatto.
Ma già nei primi decenni del Novecento diversi studi medici avevano dimostrato come l’esposizione alle polveri di amianto porti all’inalazione attraverso le vie respiratorie di piccole fibre del minerale. Si determina così negli alveoli polmonari una reazione infiammatoria cronica, che sviluppa una fibrosi interstiziale. L’asbestosi – questo il nome della malattia professionale dei lavoratori dell’amianto – porta a una progressiva riduzione dell’elasticità polmonare, la quale in breve tempo causa un’insufficienza respiratoria ingravescente. Alla luce di questi dati il Regno Unito era stato il primo, nel 1931, a emanare apposite leggi per il controllo dell’esposizione alle polveri dei minerali, onde ridurre il rischio per i lavoratori di contrarre questa grave malattia.A metà degli anni Cinquanta l’autorevole medico inglese Richard Doll (1912-2005), noto alla comunità scientifica per i suoi precedenti studi sulla relazione tra fumo di tabacco e tumore dei polmoni, aveva evidenziato un’incidenza quasi doppia di cancro polmonare nei soggetti esposti alla polvere di amianto rispetto al resto della popolazione. È però merito di alcuni medici sudafricani aver dimostrato pochi anni dopo lo specifico rapporto di causa-effetto tra fibre di amianto e mesotelioma pleurico, un tumore relativamente raro della membrana che ricopre i polmoni.
Un articolo pubblicato nel 1960 su un’autorevole rivista inglese di medicina del lavoro, che aveva come primo autore un giovane patologo di Johannesburg, Chris Wagner (1923-2000), provocò un notevole clamore in ambito scientifico e una vera "tempesta mediatica" in tutto il mondo. L’analisi di oltre trenta casi di mesotelioma pleurico, istologicamente documentato, riscontrato in pochi anni in persone provenienti tutte da una limitata area geografica del Sudafrica (quella in cui erano concentrate le cave aperte per l’estrazione del minerale), tenuto conto anche dell’assenza di questa patologia nell’ambito di tutti i tumori polmonari analizzati nei cinque anni precedenti – oltre diecimila –, portava a stabilire l’esistenza di un rapporto diretto tra amianto e quel tipo di tumore. Ogni ulteriore dubbio era spazzato via dal ritrovamento di corpuscoli di amianto nel polmone di alcune delle persone morte per tale neoplasia.
Il dibattito in ambito medico divenne subito rovente: tra chi riteneva incontrovertibili i dati dello studioso sudafricano e chi poneva seri dubbi sulle sue conclusioni, basandosi sul fatto che molti lavoratori affetti da asbestosi non avevano sviluppato nel tempo il tumore pleurico. Anche sul piano politico-sociale le reazioni furono accese. Si scontravano interessi economici e industriali da un lato, tutela della salute individuale e collettiva dall’altro. Si contrapponevano visioni differenti dell’uso dell’ambiente: sfruttamento indiscriminato e pattumiera diffusa contro sostenibilità ecologica e rispetto del territorio. Un aspetto, quest’ultimo, ancora poco percepito e sentito dalla società del tempo. Riguardo la questione sanitaria, i motivi di una apparente contraddizione tra i dati sostenuti dai medici sudafricani e le osservazioni di altri specialisti furono presto chiarite, grazie anche al contributo di un pioniere della medicina del lavoro, l’italiano Enrico Vigliani (1907-1992). Le sue osservazioni sui malati di mesotelioma pleurico nel nostro Paese confermavano quello che lo stesso Wagner avrebbe poi evidenziato qualche anno dopo la sua prima pubblicazione: cioè che la latenza tra l’inizio dell’esposizione all’amianto e l’insorgenza del tumore era molto lunga, tra i 30 e i 40 anni.
Un problema di drammatica attualità ancora oggi, perché i lavoratori e le popolazioni esposte per decenni alle polveri di amianto, soprattutto nei luoghi dove si trovavano gli stabilimenti di lavorazione poi chiusi in Piemonte (Casale Monferrato, Cavagnolo), in Lombardia (Broni), in Puglia (Bari) e in Sicilia (Priolo, Augusta), corrono il rischio potenziale di sviluppare questa patologia nei prossimi 10-15 anni. La bonifica di tutti i luoghi dove ancora oggi sono presenti manufatti edilizi contenenti amianto e il monitoraggio sanitario dei luoghi e delle persone a rischio devono costituire un preciso impegno dello Stato, che non solo deve esigere l’indennizzo dei danni umani e ambientali provocati da chi coscientemente ha ignorato per anni pericoli noti (seppure magari non ancora giuridicamente sanzionabili), ma deve anche farsi garante che la giustizia non abbia armi spuntate contro i responsabili di tali misfatti. Quella dell’Eternit, con le sue implicazioni economiche, sanitarie ed ecologiche, è una storia emblematica che, al di là del clamore suscitato dai fatti giudiziari legati alla cronaca di questi ultimi giorni, fornisce un insegnamento prezioso in ambito medico e un monito preciso sotto il profilo etico. Da un lato, ha fatto prendere coscienza che le cause ambientali e lavorative, oltre che gli scorretti stili di vita, costituiscono rilevanti fattori di rischio nell’insorgenza delle malattie tumorali, e non devono perciò essere sottovalutati. Dall’altro, ci ricorda che il fine ultimo di ogni invenzione deve essere il tentativo di realizzare un bene per l’umanità e non il puro profitto (pur legittimo quest’ultimo, se non va contro l’uomo). Se si deroga da questa prospettiva, la condanna – morale e giuridica – ne è la conseguenza assolutamente legittima.