mercoledì 7 ottobre 2015
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L'ultima sentenza della Corte di Giustizia europea – quella che ieri ha stabilito che gli Usa non garantiscono un livello di protezione adeguato dei dati personali raccolti via web – non riguarda solo avvocati, professori e appassionati di tecnologie. Riguarda tutti noi. Ci riguarda come utenti di Internet, come cittadini italiani ed europei. Riguarda, in parte, anche il nostro futuro economico e tecnologico, e il rapporto – anche commerciale – tra Europa e Stati Uniti. Qualcosa di ben più complesso, quindi, di una battaglia contro Facebook o della partita di un giovane avvocato austriaco che con la sua denuncia ha deciso di sfidare uno dei colossi del web, mettendo in moto tutto questo.In questi anni, infatti, l’America di Facebook, Google, Twitter e Apple è diventata il centro del mondo digitale. Il crocevia dei dati mondiali raccolti ogni secondo su web e social. Miliardi di informazioni personali su ognuno di noi che rappresentano la vera ricchezza di molti di questi giganti della tecnologia. I dati degli utenti europei vengono però conservati su computer (i cosiddetti server) posti fisicamente in Irlanda, e ogni giorno trasferiti in America per trattarli in maniera globale. Lo scandalo Datagate, con tutti i suoi annessi e connessi, ha messo sotto gli occhi del mondo le falle del sistema americano, relativo alla sicurezza e al trattamento dei dati personali degli utenti. Da qui la sentenza della Corte di Giustizia europea che annulla quanto sostenuto nel 2000 dalla Commissione europea, rimettendo al centro dell’agenda degli Stati Uniti – come ha ricordato il Garante italiano della privacy, Antonello Soro – «il tema dei diritti fondamentali delle persone e la necessità che questi diritti, primo fra tutti la protezione dei dati, vengano tutelati anche nei confronti di chi li usa al di fuori dei confini europei».Che una sentenza obblighi gli Stati a tutelare maggiormente la privacy dei cittadini è sempre una buona notizia. Perché troppo spesso noi sottovalutiamo il problema o perché ci sentiamo impotenti davanti ai colossi che minano la nostra privacy, oppure perché crediamo di non avere niente da temere. Uno dei rischi derivanti semmai da questa sentenza è che l’Europa non riesca a dare vita a una politica comune di protezione dei dati digitali e che ognuno dei Paesi europei faccia di testa sua, mettendo in difficoltà tutti gli altri. Una vera incognita è, poi, rappresentata da ciò che faranno gli Stati Uniti, la cui ricchezza tecnologica dipende in larga parte anche dai dati digitali posseduti dalle sue aziende. Perché qui non si tratta di spostare fisicamente un computer (migliaia di computer) da una nazione a un’altra per aggirare la sentenza. La fretta con la quale Facebook e tutti gli altri colossi web chiedono norme chiare riguarda la paura di perdere il controllo (e i soldi, molti soldi) sulla gigantesca raccolta di dati che fanno ogni giorno. E di doversi sottoporre a regole sempre più severe decise da nazioni che hanno a cuore più di altre la privacy dei cittadini. Sarà fantascienza, ma provate a immaginare cosa succederebbe se l’Europa vietasse a Google, Facebook, Twitter e a tutte le altre aziende che controllano la Rete di usare a fini commerciali i nostri dati che consciamente e (troppo spesso) inconsciamente lasciamo ogni giorno sul web. Nell’attuale impero digitale, retto da una potentissima oligarchia, ci sarebbe una rivoluzione con conseguenze serie e persino inimmaginabili. Perché in Rete i veri soldi sono i dati. Tolti quelli, molti giganti non sarebbero più tali. E gli Stati Uniti d’America, che non sono già più l’unica e incontrastata potenza globale, non sarebbero più nemmeno il centro del mondo digitale.
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