Quando ci sarà pace a Gerusalemme, ci sarà per tutto il mondo. Ai tavoli della diplomazia – quei pochi attivi – è un’espressione che può far sorridere: come fosse solo un modo aulico per dire “fine guerra mai”. Ma le recenti, accorate espressioni di papa Leone alle Chiese orientali, e poi ancora al Corpo diplomatico, stanno muovendo uno scenario paralizzato dal gioco dei veti e mostrano un altro orizzonte, rivelato non dalla geopolitica ma dalla teologia della storia, nelle cui pieghe non è all’opera solo la logica umana: c’è da sperare tutti che sia così, perché quel che vediamo sulla scena del mondo ora è solo ostinazione di guerra, coazione a ripetere gli stessi tragici errori del passato, pur sapendo molto bene che nelle coscienze c’è una voce tutta diversa da ascoltare.
Vale solo per chi crede? Quel che è certo è che si mostra indispensabile assumere un altro punto di osservazione sugli scenari globali insieme ad altri metodi di azione rispetto a quelli che a nulla hanno portato sinora se non all’accendersi di sempre nuovi focolai armati.
Come se una guerra ne producesse di necessità una nuova, in tutt’altro luogo ma ispirata alla stessa grammatica del regolamento di conti, dell’approfittare di un fronte avverso indebolito, distratto, incerto, incassando alla svelta tutto quel che si può prima che l’orrenda macchina delle armi torni a tacere. Il problema è che col solo alfabeto dei palazzi del potere le armi stanno alzando sempre di più la voce, e pare impossibile fermarle. Di tanta desolante impotenza sono segno definitivo i “vertici di pace” convocati per nemmeno incontrarsi, beffa atroce per chi a quella pace guarda come alla sola salvezza per la sua stessa vita. E allora, se questa è la risposta della politica internazionale che non sa più trovare parole di riconciliazione, perché non credere che la ragione vada allargata sino a ricomprendere lo sguardo della fede? Se le voci degli uomini di potere non sanno rimediare ai loro stessi spaventosi disastri e, anzi, ne innescano sempre di nuovi, è davvero impensabile e ingenuo fare silenzio e ascoltare la sapienza degli uomini di Dio? Potrebbero, le cancellerie e i “prigionieri della guerra”, scoprire che c’è un altro modo per guardare questo mondo che gronda angoscia, sofferenza, sangue. Ecco la sua voce: «Domandate pace per Gerusalemme: sia pace a coloro che ti amano, sia pace sulle tue mura, sicurezza nei tuoi baluardi. Per i miei fratelli e i miei amici io dirò: “Su di te sia pace!”. Per la casa del Signore nostro Dio chiederò per te il bene».
Da ventitré secoli, il salmista scioglie per noi questo canto di pace dalla città che ne è da sempre il simbolo e la negazione, la speranza e l’abisso. «Gerusalemme è una sorta di paradigma di quello che accade nel pianeta – ha detto il patriarca latino della Città Santa, appena intervistato per Avvenire da Giacomo Gambassi –: dal punto di vista religioso, politico, sociale». E però proprio dove la gran parte dell’umanità volge il cuore con speranza «la pace è la grande assente: non soltanto nelle nostre città e nella realtà quotidiana, ma anche nel pensiero. Resta soltanto un desiderio ». Dunque va cercata ovunque fuorché nella terra che è sacra per la maggior parte dell’umanità? E se invece fosse proprio la chiave religiosa oggi a mostrarci l’indirizzo della pace? Non certo fornendola chiavi in mano, ma accendendo quel desiderio di cui parla il cardinale Pizzaballa: perché senza desiderio di una meta è evidente a tutti che si continuerà a vagare nel deserto dell’odio. Proprio l’assoluta sterilità della logica che scredita alla base la religione ritenendola responsabile ultima di tanti lutti dovrebbe aprire a un altro sguardo, puntandolo come ha fatto Leone nei suoi già ripetuti interventi sulla pace proprio verso il centro arroventato delle tensioni politiche e religiose del mondo intero. E proprio per questo suo dramma, che è lo stesso della nostra comune umanità, solo luogo dal quale la pace può tornare a irradiarsi sul pianeta. Le prime parole del pontificato – «La pace sia con tutti voi» – sono le stesse risuonate nel cuore di Gerusalemme: le ha pronunciate Cristo stesso, Dio e Risorto, vincitore della guerra che la morte ci smercia da sempre come suo prodotto di punta. Non possiamo credere che quella del Signore della storia sia una frasetta per anime candide: «La guerra – dice Leone XIV – non è mai inevitabile, le armi possono e devono tacere, perché non risolvono i problemi ma li aumentano; perché passerà alla storia chi seminerà pace, non chi mieterà vittime; perché gli altri non sono anzitutto nemici, ma esseri umani: non cattivi da odiare, ma persone con cui parlare».
È la contestazione più radicale possibile del destino di morte di cui si fa strumento chi la guerra la vuole e la muove, da Israele e Gaza all’Ucraina, e in tutto il mappamondo dell’insensatezza umana che esalta la strage e la distruzione come vittoria, una bestemmia dell’umanità alla quale il Vangelo eternamente oppone il suo canto di vita. La pace che risuona con la nitida voce di Dio dal centro della Città Santa, nostalgia invincibile per tutti i cuori umani, è la più realistica che si possa immaginare: perché chi l’ha pronunciata dentro le mura di Gerusalemme ha voluto che da lì parlasse a tutti i tempi e in tutte le situazioni più disperate come l’evocazione della sola “speranza che non delude”, possibile, certa, perché ha l’esclusiva dell’autenticità: «La pace di Cristo – sono ancora parole di Leone – non è il silenzio tombale dopo il conflitto, non è il risultato della sopraffazione, ma è un dono che guarda alle persone e ne riattiva la vita». La pace è nata a Gerusalemme, proprio là dove è più insistentemente negata, e da lì continua a dirci che è quella la sua patria, il suo luogo d’origine. Perché solo Gerusalemme sa essere casa di tutti. Il Vangelo ci dice che dista «meno di due miglia» da Betania, il luogo della risurrezione di Lazzaro, inaudita svolta dalla tragedia alla vita: «Credi tu questo?». Forse, rilanciando l’eco di pace che ancora risuona nella Città Santa, il passo fuori dalle guerre può farsi breve.