martedì 9 dicembre 2008
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Eccoci ad un’altra emergenza, di quelle che per la loro natura sono maggiormente destinate ad allarmare l’opinione pubblica europea già stressata dalla crisi economica, dalla polverizzazione dei risparmi e dalle incertezze per il domani. Emergenza alimentare, ancora una volta. In una ventina di Paesi c’è il rischio che arrivino o siano già giunte partite di carne suina (e forse anche bovina) contaminata da un inquinante che noi italiani conosciamo bene dopo l’esperienza fatta a Seveso una trentina di anni fa. Sì, la diossina, finita chissà come nell’apparato digerente dei maiali di una decina di allevamenti dell’isola di San Patrizio e di San Colombano. In realtà, dire "chissà come" - è quello che sembrano fare le autorità locali - è un modo elegante per sgravarsi della responsabilità dei mancati controlli sugli alimenti di origine industriale forniti a quegli animali. La diossina, che si genera in ogni combustione (perfino quella di una sigaretta) ed è un sottoprodotto di vari processi chimici, non trova impiego nell’attività agricola o zootecnica. Intercettati in Belgio e in Olanda alcuni carichi di carne infette, è scattato l’allarme europeo al quale si sono adeguate le autorità italiane con una tempestività della quale va preso atto. La prudenza viene prima di tutto; la salute è troppo importante perché alla sua tutela non si mobili ogni struttura a ciò proposta. Tutto quello che a livello scientifico si impone in materia di profilassi e di eradicamento dei focolai di contaminazione va fatto in fretta. Detto questo, qualche considerazione aggiuntiva diventa doverosa, in quanto tra la sacrosanta cura riservata alla salute dell’uomo e degli animali e l’ispirazione - anche indiretta - di comportamenti che alimentino forme di psicosi collettiva il passo è breve. È dirompente la carica di terrorismo psicologico implicitamente connaturata a certi annunci ossessivamente strillati, a certe dichiarazioni di pseudo-esperti che instancabilmente dipingono scenari di Apocalisse. Ricordiamo cosa è avvenuto, in Italia più che altrove, ai tempi della Bse, l’encefalopatia spongiforme bovina, la sindrome della mucca pazza. Era il 1994, il morbo infierì soprattutto nel Regno Unito, ma l’allarmismo incontrollabile che dilagava - complici i media - tra l’opinione pubblica, indusse l’Europa ad imporre misure talmente drastiche che gli allevamenti anche italiani ne ebbero enormi danni. Misure drastiche e incongruenti: messa al bando la fiorentina, emblema della cucina toscana solo di recente liberata dalla quarantena, un patito della gloriosa bistecca poteva soddisfare i suoi capricci in un ristorante di San Marino. Sembra ragionevole allora sostenere che la nuova emergenza dei maiali alla diossina (si parla di carni con un tasso di inquinamento cento volte oltre il limite prudenziale) vada affrontata con fermezza sì, ma anche con la giusta dose di sangue freddo, e presentata con una informazione che senza nascondere nulla sappia mettere in guardia contro ogni forma di reazione isterica, spropositata, immotivata. L’allarme infatti è una cosa, l’allarmismo un’altra, e di solito non risolve i problemi ma li complica. Ragionando di cose di casa nostra, dopo i costi pagati dagli allevamenti bovini a seguito della Bse, sarebbe grave che a trovarsi nell’occhio del ciclone fossero gli allevamenti di suini, una delle principali voci attive della zootecnia della Penisola. In gioco c’è più che la sopravvivenza delle aziende suinicole: le carni di maiale, soprattutto i tagli più pregiati che originano il prosciutto, il culatello, alcune tipologie di salumi inimitabili, costituiscono il vanto del made in Italy alimentare, il punto di forza di una corrente di esportazione penalizzata qualora in forza di allarmismi immotivati si diffondesse nel mondo il convincimento che i maiali europei, e dunque anche italiani, sono contaminati. Immaginiamo l’esultanza degli allevatori cinesi.
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