venerdì 8 agosto 2014
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Prima lo sciopero bianco che ha lasciato a Fiumicino viaggiatori e turisti senza valigie. Ora l’annuncio dell’invio in massa di certificati di malattia per bloccare nuovamente lo scalo romano. Quella di una parte dei dipendenti dell’Alitalia – la compagnia per la quale si firma oggi l’accordo di salvataggio – è una protesta insieme sbagliata, inaccettabile ma soprattutto  suicida. Sbagliata perché, per quanto sia comprensibile lo sconforto e pure la rabbia di chi è destinato a perdere il proprio lavoro, la trattativa non si può riaprire né ci sono le condizioni per far calare ulteriormente gli esuberi, già molto ridotti rispetto alle richieste iniziali della 'salvatrice' Etihad. È inaccettabile perché la lotta – quando inevitabile – va condotta a viso aperto, pronti a pagarne i costi, senza trucchi, senza far leva su un improprio potere di blocco corporativo, in grado di produrre grandi danni alla collettività. I sindacati dovrebbero essere i primi a condannare comportamenti simili. Ma è soprattutto una protesta suicida perché fornisce dell’azienda, e del Paese, un’immagine di totale inaffidabilità. Peggio: di cialtroneria. E chi vorrebbe investire in un’impresa e in una nazione così? Meglio sarebbe invece concentrare gli sforzi – e la lotta se necessario – perché siano rispettati gli impegni di ricollocamento dei lavoratori espulsi. Quella dell’Alitalia sembra la favola di Esopo, nella quale lo scorpione, che ha convinto la rana a portarlo al di là del fiume a metà percorso la punge mortalmente, anche se così morirà anch’esso. 'Perché lo hai fatto?', chiede la rana. 'Perché è nella mia natura', risponde lo scorpione. Ecco: oggi anche in Alitalia bisogna dimostrare che in questo Paese non siamo né velenosi né masochisti.
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