sabato 7 gennaio 2017
Sono mediamente oltre 2mila i giovani che ogni anno riescono a superare la barriera e vengono poi espulsi o rimpatriati dalle autorità spagnole, altrettanti quelli che tentano la via del mare
I migranti nel bosco oltre la rete di Ceuta, porta chiusa d’Europa
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«Dio, Tu sei il Signore al di qua come al di là della rete. Tu solo puoi aiutarci ora». L’hanno ripetuto una, due, mille volte. Fin quando le parole si sono conficcate in gola come spine. E la voce s’è tramutata in un tremolio delle labbra. All’unisono, Dominique, il cristiano e Abu l’islamico, hanno recitato l’improvvisata preghiera per le nove strazianti ore in cui sono rimasti lassù, in cima alla barriera. Fianco a fianco, sospesi tra l’Africa, alle spalle, e l’Europa di fronte. Con le mani aggrappate al filo spinato per non venire risucchiati dal vuoto e fare un tonfo di sei metri. Quando hanno visto la polizia portare le gru, hanno creduto che fosse finita. Ben “protetta” dietro le sue multiple barriere, la “fortezza” Ceuta, diciannove chilometri quadrati di Spagna in terra marocchina – come la “gemella” Melilla, a 400 chilometri di distanza – pareva essere riuscita a tenerli fuori. Anche stavolta.

Dei 264 migranti che lo scorso 10 settembre hanno tentato il “salto”, in 61 hanno potuto scavalcare la prima “valla” (rete) e arrampicarsi sulla seconda. Gli agenti, però, non hanno permesso loro di andare oltre. Dopo un’estenuante braccio di ferro, li hanno costretti a scendere e ricacciati indietro, in Marocco. Tutti tranne quattro, troppo malridotti per affrontare il rimpatrio. Le punte – sparse sulla recinzione – avevano lacerato carne e tendini. Dovevano essere ricoverati. «Così Abu e io siamo passati», racconta Dominique, mentre guarda con gratitudine il braccio fasciato. Forse non recupererà mai la piena funzionalità dell’arto.

Ma non gli importa. Ci ha messo sette mesi per arrivare dal Camerun a Benyunes, distesa di gole e boschi fra Tangeri e Ceuta dove i subsahariani si nascondono in attesa di provare a scavalcare. E, ora, crede di avercela fatta. «Bosa», si dice nella lingua africana fula: così gridano i migranti al toccare l’enclave spagnola. «Bosa», ripete Dominique, 19 anni dichiarati, molti di meno a vederlo, mentre mangia riso e salsa piccante – il suo piatto preferito – insieme a Luigina, Carmen, Gloria e Paloma, le quattro Piccole sorelle di Gesù che, nel quartiere periferico di Hadu, hanno creato un’oasi per gli scartati della globalizzazione. Il loro appartamento – modesto e, al contempo, curatissimo – è aperto h24 per chi ha superato la “valla” e ancora non sa che, dopo sei-sette mesi al Centro di permanenza temporanea (Ceti) di Ceuta, avrà un biglietto per un centro di espulsione nella Penisola. Da cui, nella peggiore delle ipotesi, uscirà per essere rimpatriato. Nella migliore – cioè nel caso in cui non vi siano accordi con il Paese di provenienza – per trasformarsi in un irregolare. Uno dei tanti “corpi estranei” delle città globali. L’asilo – in una nazione che respinge il 70 per cento delle richieste – resta un miraggio. Soprattutto per gli africani, vittime di guerre invisibili o, quantomeno, dimenticate.

Proprio come invisibile e dimenticata è questa “porta” sul Vecchio Continente. Quasi un accesso di servizio rispetto alle più note e battute rotte mediterranea e balcanica. Quello riservato ai più poveri fra i poveri. A quanti non hanno nemmeno i soldi per un posto sui barconi della morte dalla Libia all’Italia. E si giocano il tutto per tutto con il “salto” della rete. O dello Stretto di Gibilterra, verso Cadice, su canotti gonfiabili. Una disperazione che nemmeno la “valla” è riuscita a contenere in 21 anni d’esistenza, al costo di 22mila euro al giorno, come ha calcolato Amnesty International. Il primo muro d’Europa, modello ideale e tecnico delle recenti barriere. «In media, ogni anno, “filtrano” dal Marocco a Ceuta tra mille e duemila irregolari, quasi tutti subsahariani», spiega Paula Domingo, carmelitana e fondatrice dell’associazione Elín di Ceuta, scuola di spagnolo e convivenza per i migranti. Nel 2015 – ultimo anno per cui sono stati diffusi i dati – sono stati di più: hanno scavalcato in 2.255, conferma l’Asociación Pro Derechos Humanos de Andalucía (Apdha). Il dato s’è mantenuto costante l’anno scorso con, in media, un “salto in massa” al mese. L’ultimo, all’alba di Capodanno: in 1.100 hanno provato a raggiungere il confine provocando una dura reazione delle autorità. Alla fine – secondo quanto denunciato dall’arcidiocesi di Tangeri – due migranti sono morti, un altro ha perso un occhio. A questi, poi, si sommano gli arrivi via via mare o nascosti nei cofani delle auto: 1.790 nel 2015 e circa 2mila l’anno successivo. Il caso più recente è stato scoperto martedì scorso, in cui un uomo e una donna della Guinea erano stati occultati l’uno sotto il cruscotto, l’altra dietro il sedile rischiando il soffocamento. Il totale è, comunque, meno del 10 per cento di quanti ci provano. La proporzione resta costante, nonostante l’ulteriore stretta spagnola. Nel 2015, Madrid ha autorizzato i rimpatri automatici di quanti saltano la valla, violando il loro diritto a chiedere asilo.

Se si incrementano le entrate, dunque, è poiché, con il moltiplicarsi dei rischi lungo la rotta libica, la pressione su Ceuta cresce. «C’è un aumento, soprattutto di minori non accompagnati», afferma Inma Gala, delegata della diocesi di Tangeri sulle migrazioni. In pratica è il braccio destro di monsignor Santiago Agrelo, vescovo e francescano, dal 2007 in prima linea nella difesa degli irregolari di passaggio nella città-trampolino verso la Spagna. Vestito con il semplice saio, va a prendere gli ospiti fin sulla strada, si ferma a salutare i molti africani assiepati nei paraggi, e intercala il racconto con battute e aneddoti in italiano. «Da tutta l’Africa, entrano in Marocco dal confine con la Mauritania – con il passaporto falso di una nazione che non richiede il visto – o dalla porosa frontiera algerina. A Tangeri, il flusso si divide. Le donne con i bimbi piccoli e quanti hanno ancora qualche soldo restano in città. In attesa di raggranellare il necessario per un posto in canotto», racconta monsignor Agrelo. Nei centri commerciali, le barche gonfiabili – quelle che usano i bimbi in spiaggia – costano sui 300 euro. Ma i subsahariani sanno che acquistarne uno equivale ad autodenunciarsi di fronte alle autorità marocchine. Le mafie li comprano per loro e glieli rivendono a dieci volte il prezzo di listino.

«Chi non ha più nulla, si rifugia nella boscaglia di Benyunes, non lontano dalla “valla”, per mesi, qualcuno per anni, in attesa del “momento buono” per il salto. Sono in genere maschi giovani, in grado di affrontare un simile sforzo fisico. Non solo la rete, ma la vita alla macchia. È terribile… Da qualche tempo, poi, Benyunes è piena di adolescenti», sottolinea il vescovo. Lui stesso vi si reca ogni lunedì per portare cibo, medicine, abiti al “popolo della foresta”, lontano dalla città e privo di ogni genere di servizio. Almeno a Tangeri c’è la Delegación della diocesi che opera dietro la cattedrale, offrendo docce, consigli, aiuto per pagare gli affitti e medicine.

A Benyunes la sopravvivenza dipende dai pacchi di monsignor Agrelo e dal buon cuore di qualche cittadino. Come Reduan Mohamed Jalid, spagnolo di origine marocchina, attivista di Unadikum-Comisión Frontera Sur. Anche lui si reca a Benyunes a portare quel che rimedia da amici e conoscenti. Per questo, conosce i punti dove i ragazzi si radunano in piccoli capannelli in attesa di una mano tesa. Con un piede sull’asfalto e l’altro fra gli sterpi per sgattaiolare nella boscaglia in caso spunti una pattuglia della polizia marocchina, incaricata di tenerli lontani dalla “valla”. Una versione crudele e senza fine del gioco al gatto e al topo. Con regole precise. A cui anche i “benefattori” devono attenersi. Primo, le auto possono fermarsi poco, in modo da non dare nell’occhio. Eppure, anche nella fretta, emergono frammenti di storie. Quella di Juede, 15 anni, partito un anno fa dalla Guinea Conakry: vorrebbe tornare a casa ma sa che non può farlo. Deve “saltare” ad ogni costo per mandare, dalla Spagna, qualche soldo a casa, con cui la famiglia riesca a ripagare il debito contratto per farlo partire. Di Samba, senegalese, che dice di avere 18 anni e ma ne dimostra 14, sta nella “foresta”, come la chiamano, da due, e nel frattempo ha visto morire tre amici, di freddo, fame e malattie. Di El Nino, 22 anni: sogna di ritrovare a Ceuta il suo amico, Alfa, partito dal Gambia l’anno scorso. El Nino sa che Alfa è arrivato a Tangeri e, da lì, è partito in canotto: essendo zoppo non avrebbe mai potuto scavalcare. Poi, però, nessuno l’ha più sentito. Scomparso. Come migliaia e migliaia di altri.

Non si saprà mai la cifra esatta: a maggio sono spariti fra le onde in 56. Lo stesso è accaduto a febbraio. Questo tratto di mare a cavallo tra Mediterraneo e Atlantico, spesso, non restituisce i corpi. Quando accade, le vittime vengono sepolte nel cimitero cristiano di Ceuta. Senz’altra indicazione che un numero. In mancanza di documenti ufficiali, la procedura impedisce – anche in caso di riconoscimento – di mettere un nome o una lettera. Niente. Piccoli loculi, chiusi in fretta con un po’ di intonaco. Ce ne sono file intere. Migliaia di tombe senza nome, né lapide. I morti di nessuno. Eppure, di tanto in tanto, sullo zoccolo di cemento o in un bicchiere di plastica attaccato con il nastro adesivo, qualcuno lascia un fiore.

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