«Agroecologia non agroindustria». Ma c'è tecnologia amica. E ci serve
martedì 13 agosto 2019

Gentile direttore,

ho letto con grande interesse l’articolo di Leonardo Becchetti su “Avvenire” di mercoledì 7 agosto, che richiama e mette in evidenza i veri punti nodali della questione dell’immigrazione: a) il modo migliore per “aiutare a casa loro” le popolazioni dei Paesi a forte pressione migratoria è far sì che essi possano ricevere le rimesse dei migranti; b) in realtà siamo noi, Paesi ospitanti, che riceviamo dai migranti un “aiuto a casa nostra”, in termini di contributo alla produzione di beni e servizi (welfare).

Vorrei, però, proporre una riflessione su un punto. Nell’articolo si critica giustamente lo sfruttamento del lavoro in condizioni di semi-schiavitù nelle nostre campagne. Ma la distinzione che viene proposta fra «un’agricoltura efficiente, ad alta intensità di capitale, e una meno efficiente, meno tecnologicamente avanzata, che colma i suoi limiti con lo sfruttamento del lavoro» mi sembra che richieda qualche approfondimento. L’agricoltura ad alta intensità di capitale include le forme di produzione agro-industriale (compreso l’allevamento) che prevedono elevati input chimici, tecnologici ed energetici e che sono prevalentemente orientate alla monocoltura, all’esportazione e alla grande distribuzione organizzata.

Queste pratiche tendono a distruggere le agricolture di sussistenza dei Paesi meno sviluppati, anche attraverso il mobbing, con ciò contribuendo ad aumentare la spinta migratoria. Inoltre esse sono una delle cause principali del riscaldamento climatico e producono altre gravi esternalità di tipo ambientale, sanitario e sociale, come un esagerato consumo di risorse idriche, la perdita di fertilità dei suoli e di biodiversità, la promozione di uno stile alimentare non favorevole alla salute, la mancata attenzione – in alcuni casi – ai diritti dei lavora- tori, dei contadini e delle popolazioni native.

Al contrario, il modello di agricoltura che dovremmo favorire – nel corso di un adeguato periodo di transizione e di acquisizione di consapevolezza da parte della popolazione – è quello dell’agricoltura naturale e contadina, che potremmo anche definire agroecologia, intesa come un’attività che produce cibo buono, sano e per tutti, nel rispetto della fertilità dei suoli, della biodiversità naturale e dei diritti delle persone (lavoratori e consumatori). Essa può essere altrettanto o più efficiente del sistema agroindustriale nel “nutrire il pianeta” (di fatto, secondo alcuni dati, la rete alimentare contadina fornisce il cibo al 70% della popolazione a livello mondiale), senza causare esternalità negative sull’ambiente e sulla salute. È orientata prevalentemente al consumo locale e viene praticata in genere da piccole aziende, spesso a conduzione familiare.

Non è ad alta intensità di capitale, bensì di lavoro altamente qualificato, in quanto basato su conoscenze e competenze millenarie, oltre che sulle nuove acquisizioni scientifiche e tecnologiche. Su questi temi esiste poca consapevolezza nell’opinione pubblica, ma è disponibile una vasta letteratura e molte fonti di informazione in rete, purtroppo poco conosciute. A titolo di esempio cito solamente i libri di Stefano Liberti e Fabio Ciconte (“I signori del cibo” e “Il grande carrello”), quelli di Silvia Perez Vitoria (“Il ritorno dei contadini”, “La risposta dei contadini”, “Manifesto per un XXI secolo contadino”), la pubblicazione “Chi ci nutrirà?”, a cura del gruppo Etc, i libri di Pierre Rabhi (tra i quali “La sobrietà felice”), i siti di Ari (associazione rurale italiana) e della Via campesina. Cordiali saluti

Claudio Culotta medico e agricoltore biologico dilettante

Gentile dottor Culotta e, se me lo permette, caro Claudio, la sfida tremenda che abbiamo davanti sta nel riuscire a conciliare la produzione di massa di cui abbiamo bisogno per sfamare i sette miliardi di abitanti del pianeta con la sfida ecologica sempre più drammatica di cui tutti ormai abbiamo sentore per via del problema del riscaldamento globale e delle notizie continue e gravi che arrivano su questo fronte. Per vincere questa sfida non possiamo permetterci di pensare che la tecnologia sia solo alleata dell’inquinamento. Solo un progresso tecnologico amico dell’ecologia può salvarci. Ad esempio: anche l’irrigazione goccia a goccia che risparmia e usa in modo efficiente risorse idriche è una forma di sofisticato progresso tecnologico. Un’altra direzione assolutamente promettente, di cui anch’io ho già parlato sulle colonne di “Avvenire”, è l’approccio land based che rende – ecco un altro esempio – nuovamente fertili suoli in via di desertificazione nel Sahel con tecniche di terrazzamento e di agricoltura familiare. Con effetti positivi sulla cattura di CO2 da parte del suolo e della distribuzione del reddito in loco. In estrema sintesi, il punto del mio ragionamento è che per vincere la sfida non abbiamo bisogno di meno tecnologia, ma di più tecnologia amica, puntando allo stesso tempo sulla qualità dei prodotti che è l’unica a poter sostenere salari dignitosi per chi lavora nel settore. Per questo servono investimenti. Ricambio, anche a nome del direttore, il suo cordiale saluto.

Leonardo Becchetti Economista Università di Roma Tor Vergata ed editorialista di Avvenire

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