Agnese e Adriana, la forza di uscire dalla prigione del rancore
sabato 20 ottobre 2018

La storia fa da sfondo. Anche il nome di Aldo Moro non viene quasi mai pronunciato. Adriana lo chiama il «papà di Agnese». A sua volta Agnese ricorda solo i nomi degli uomini della scorta trucidati in via Fani il 16 marzo del 1978. Hanno accettato di venire, queste due signore, a Sant'Agata dei Goti, nel Beneventano, per renderci partecipi del travaglio dei loro animi. Siedono come due vecchie amiche, una accanto all'altra, sull'altare della cattedrale gremita e silenziosa. Gli occhi di tutti sono fissi su di loro. Agnese Moro, la figlia dello statista ucciso dalle Br, e Adriana Faranda, una dei brigatisti responsabili della sua morte, hanno trovato il coraggio di scavare dentro se stesse per estirpare l'antico rancore che le accomunava e le divideva. Hanno spalancato le porte della prigione del passato; hanno saputo trasformare il dolore che rischiava di agghiacciarle in un trampolino di lancio verso il futuro.

«Sento la necessità di portarvi nel mio mondo interiore» esordisce Agnese. È questa la chiave di lettura dell'incontro, di questo vuol parlarci, questo siamo venuti a sentire. Non è stato un convegno sul "caso Moro" quello che si è tenuto nei giorni scorsi a Sant'Agata, ma un momento delicatissimo in cui sua figlia racconta come sia stato possibile incontrare, dialogare, sforzarsi di capire gli assassini di suo padre. All'inizio c'è stato il rischio che «l'odio, la rabbia, la delusione, i sensi di colpa» prendessero il sopravvento. Un «incoercibile desiderio di giustizia» le ribolliva dentro, ma sapeva che il dolore dell'altro non avrebbe mai potuto lenire il suo. La «dittatura del passato» doveva cessare. A tutti i costi.

Intuisce che c'è da fare un percorso interiore per ritrovare la pace, la serenità, la libertà. Per ritornare a vivere. Per farlo, però, deve saper dire "basta". Con fermezza, convinzione. Il Signore mette sul suo cammino padre Guido, gesuita, e un gruppo di sorelle e fratelli che l'aiutano a elaborare il lutto e a fare piccoli passi per una possibile riconciliazione con chi le ha fatto male. Lentamente, si concretizza la possibilità di incontrare alcuni responsabili della morte di Moro. Non è facile. Non tutti capirebbero. Agnese accetta. E si accorge che quelle persone da sempre ritenute "mostruose" hanno conservato la loro umanità. Una scoperta che vale quanto una rivelazione. Durante un ritiro, in Piemonte, dalla loro bocca sente che hanno sofferto e soffrono per averle ucciso il padre. Rimane sbigottita. Com'è possibile?, si chiede. Quel dolore è suo, appartiene a lei, alla sua famiglia. Che c'entrano loro? Vittime e carnefici accomunati nella stessa sofferenza? Non stiamo esagerando?

Questo fatto "disarmante" la sconvolge. E capisce, Agnese, che per andare incontro all'altro deve spogliarsi di ogni pregiudizio. Senza opporre resistenza. Deve smettere di vedere in lui il nemico, l'assassino, e riprendere a considerarlo un uomo. Un uomo che ha sbagliato, ha ucciso, ha fatto soffrire, ha sofferto, ma che non ha mai smesso di avere un nome, un volto, una storia. Un uomo che puoi finalmente guardare negli occhi, chiedendogli: "Come hai potuto?" Allora i ghiacciai si sciolgono, i cuori intrappolati nel dolore si allargano. Si riprende a respirare aria di montagna. E tu capisci che il male non ha avuto l'ultima parola. Non ha vinto. Finalmente giustizia è fatta.

In cattedrale non vola una mosca. Gli sguardi sono bassi. Questo parlare è vangelo "sine glossa". Agnese è pacata, serena, non alza mai la voce, ma le sue parole, come lame affilate, penetrano negli animi commossi.

È la volta di Adriana. Esile, il volto lungo, solcato dalle rughe, anche lei, senza saperlo, andava sperimentando un travaglio interiore simile a quello di Agnese. È vero, si era dissociata dalle Br, aveva pagato il suo debito con la giustizia, aveva sofferto, ma sentiva che non poteva bastare. Per fare pace con se stessa, col mondo, con gli uomini, con il futuro, occorreva ricostruire le «relazioni spezzate». Anche lei sente forte il bisogno di uscire dalla corazza del passato che rischia di soffocarla. Per farlo, sente forte il bisogno di poter incontrare le persone offese. «Io oggi mi sento responsabile di Agnese», dice, sfiorandole delicatamente la mano. Un gesto che non passa inosservato. Una carezza che vale più di mille discorsi.

Il suo intento non è quello di chiedere perdono, atteggiarsi a vittima, o pretendere di essere compresa. È molto di più. È il desiderio di caricarsi sulle spalle il fratello incappato nei briganti, portarlo in salvo, rimanergli accanto, soffrire insieme, e insieme tentare di guarire. Riconoscendo che quel brigante sei stato tu. «Certo, ci sono cose che non possono essere riparate», ammette. Indietro non si torna, è vero, ma davanti si deve guardare. Il male fatto come un macigno rimane, ma possiamo disinnescarne la carica esplosiva perché smetta di generare divisione, sofferenza, morte. «La violenza, sia quando la si riceve sia quando la si esercita, provoca traumi profondi. L'uccisione del papà di Agnese per me è stata atroce», sussurra, socchiudendo gli occhi. Dal quel giorno sono passati quarant'anni...

Adriana Faranda chiude il suo intervento con parole che tutti vorremmo sentirci dire dal Giudice supremo nel giorno del giudizio: «Ho sempre visto le mani di Agnese tese, dopo che mi avevano spaccato in due col suo dolore». Confessione. Redenzione. Risurrezione. «A volte – aggiunge Agnese – il male è tremendo per la sua stupidità, per la sua piccolezza. Io sono sicura che Gesù quello che mi dice me lo dice per rendermi felice. E se mi dice: "ama il tuo nemico"... Ci ho pensato trent'anni». E tace.
Le parole possono prendere congedo. Silenzio. Riconoscenza. Preghiera. Lo Spirito aleggia. Abbiamo capito. Abbiamo imparato la lezione. Un applauso liberante, lunghissimo, esplode in chiesa. Agnese Moro e Adriana Faranda, due donne che hanno saputo mettere a tacere l'odio e imboccare la strada faticosa e bella della riconciliazione. La sola ricca di senso e di futuro.

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