giovedì 16 febbraio 2017
Il continente prova a fare da solo: meno dipendenza da Ue (e Cina). Più peacekeeping autonomo. Cambia l'agenda ma le crisi aperte sono tante
Moussa Faki, ex ministro degli esteri ciadiano, è il nuovo presidente della Commissione dell'Unione africana.

Moussa Faki, ex ministro degli esteri ciadiano, è il nuovo presidente della Commissione dell'Unione africana.

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Il nuovo presidente della Commissione dell’Unione Africana, eletto pochi giorni fa ad Addis Abeba, è il ciadiano Moussa Faki, ex ministro degli Esteri ciadiano. È una conferma dell’accresciuto ruolo del Ciad in questi anni, come fattore di stabilizzazione in particolare nella lotta al terrorismo jihadista. La tradizione militare ciadiana è nota da tempo. Moussa Faki ne rappresenta la parte politica, anch’essa capace di influenza crescente. La prima sfida che si troverà ad affrontare il neopresidente è la riforma dell’organizzazione.

Unione Africana da riformare? Il documento del presidente ruandese Paul Kagame – a cui i suoi pari hanno affidato la responsabilità di dare indicazioni – risponde affermativamente, pena la perdita di influenza. Si raccomanda che l’Ua si occupi di meno cose, ma in maniera più approfondita, che si raccordi meglio con le organizzazioni regionali (Ecowas, Cemac, Sadeec, ecc.), che spenda meno e bene; che diventi autonoma finanziariamente (oggi oltre il 60% del suo bilancio è finanziato dai donatori come la Ue); che sia più efficace nelle crisi. Si tratta di un auspicio che hanno in molti: liberarsi da tutti i condizionamenti esterni per dare l’«Africa agli africani» e «soluzioni africane ai problemi africani». Nel documento infatti si sottolinea che gli inviti a Paesi e organizzazioni terze ai vertici debbono essere eccezionali. Già la presidente della Commissione uscente, la sudafricana Dlamini Zuma, aveva fatto suoi tali argomenti, restringendo – ad esempio – la possibilità degli europei di essere presenti ad Addis Abeba durante le riunioni. Ma poi era a loro che ci si rivolgeva per il finanziamento delle attività. Per Kagame ciò è contraddittorio e umiliante.

Certamente la nuova assertività africana si fa sentire: l’uscita di tre Paesi – Gambia, Burundi e Sudafrica – dalla Corte penale internazionale (Cpi) è un segnale forte. All’ultimo vertice, la Ua ha deciso l’interruzione di qualunque dialogo con il Consiglio di sicurezza dell’Onu su tale argomento, adottando una 'strategia del ritiro', anche se alcuni Paesi ancora frenano (Nigeria, Senegal, Malawi, Tanzania e Tunisia, per esempio). Questo anche se la procuratrice generale della Cpi è un’africana, la gambiana Fatou Bensouda. Gli africani accusano la Corte di occuparsi solo dei casi di violazioni nel continente, e non di altri. Di essere in qualche modo «razzialmente orientata», ma c’è chi pensa che si tratta di una scusa per interrompere le indagini in corso.

Parallelamente la Ua di Dlamini Zuma si è interposta in alcune crisi, come quella del Burundi, proteggendo il presidente Nkurunziza dalle critiche della comunità internazionale per violazioni dei diritti umani e dispotismo. L’affermarsi delle 'democrature' e dei regimi forti (come in Turchia e Russia) diviene un modello che rafforza quanti nel continente, dove pure si vota quasi ovunque ormai, preferiscono una 'forte' gestione del potere. Ancora non è sorta in Africa una reale forma di bilanciamento dell’esecutivo, né in campo legislativo né giudiziario né mediatico. E, salvo eccezioni, l’Unione Africana non è divenuta quella cassa di risonanza dei popoli che si sperava, un modo cioè per supervisionare i regimi. Rimane per ora un 'sindacato dei capi di Stato' come dicono gli africani stessi.

Certo una maggior 'africanizzazione' della Ua dovrà fare i conti con le crisi in atto nel continente: sono sette le operazioni di peacekeeping a guida Onu contro solo una della Ua, a parte le iniziative regionali (in particolare in Africa Occidentale e centrale). Ciò nonostante, il continente ha ancora bisogno dell’Onu e dei suoi partner internazionali. Tra questi ultimi la parte del leone la fa ovviamente la Cina, sempre molto presente soprattutto per ragioni geopolitiche. La sua recente minor crescita ha avuto effetti anche in Africa, dove in cinesi hanno ridotto le loro importazioni del 30% nel 2016. Accanto ai cinesi, si è di nuovo rafforzata in questi anni la presenza europea, sul piano sia economico sia politico. In Mali, il Ciad è stato protagonista della cooperazione anti-terrorismo tra Francia, altri Paesi europei e africani. Nella regione del lago Ciad, alla frontiera tra Nigeria, Niger e Camerun, le truppe di N’Djamena hanno svolto una gran parte del lavoro in funzione anti-Boko Haram.

Gli europei si sono risvegliati grazie alla corsa all’Africa iniziata da Pechino. Molte sono state le viste di capi di Stato e di governo, assieme a quelle dei ministri degli Esteri. Oltre a Hollande, anche Merkel, l’allora premier Renzi e lo stesso presidente Mattarella ed altri leader europei sono stati per la prima volta sul continente, complice anche la crisi dei migranti. La Ue ha stanziato fondi. Nuovi programmi vedono la luce, come quelli per l’elettrificazione (sono ancora 600 milioni gli africani senza corrente). L’Africa è rimasta al centro degli interessi di altre potenze grandi o medie, come l’India, la Corea del Sud, il Giappone, la Turchia, Israele... Ma soprattutto in questi ultimi anni abbiamo assistito all’arrivo in massa del settore privato, incoraggiato dai governi. Oltre alla tradizionale presenza delle imprese francesi e inglesi, sono tornate quelle italiane e sono giunte per la prima volte quelle tedesche, spagnole, turche ecc.

Per fare un esempio: a parte l’Eni (da anni primo operatore 'oil & gas' in Africa), l’Enel sta inserendosi molto bene attraverso la politica delle rinnovabili, vincendo gare in Sudafrica, Kenya o Zambia. L’idea di successo delle mini-grid (cioè reti autosostenibili localmente, in contrasto con quella delle grandi centrali ritenute costose e inefficienti), sta prendendo piede proprio grazie a Enel. Il neo presidente di turno dell’assemblea dell’Unione Africana, il Presidente guineano Alpha Condé, è interessato all’iniziativa che lui stesso sponsorizza e per la quale l’Ue si è impegnata. Altri settori di grande interesse per le imprese europee sono l’agro-industria e le infrastrutture, ove gli italiani sono ben inseriti, ad iniziare da Salini. L’idea dei partner africani è di poter dare impulso alla nascita di un settore manifatturiero sul continente, per uscire dalla servitù delle mere esportazioni di materie prime. Resta il fatto tuttavia, che l’Africa è l’ultimo continente dove esiste terreno fertile non utilizzato. Si tratta di milioni di ettari da mettere in produzione ma il problema che si pone è quale modello sarà utilizzato: latifondismo stile landgrabbing o la nascita di un settore agro-industriale endogeno?

Un punto interrogativo riguarda gli Stati Uniti. Con il presidente Obama è venuta meno la politica africana molto aggressiva di Clinton e Bush junior. Sono stati chiusi grandi programmi e la politica commerciale si è infiacchita. La presenza americana c’è da sempre e rimane, ma non si è rafforzata. Ora occorrerà vedere che cosa farà il presidente Trump, del quale sono note solo le intemerate contro «l’Africa corrotta e gli africani da mandar via» della campagna elettorale. L’unico segnale è che nella sua squadra c’è un miliardario nigeriano come consulente.

Infine, la nuova leadership della Ua dovrà occuparsi delle crisi politico-etniche. Accanto a quelle di vecchia data – Somalia, Repubblica democratica del Congo, conflitto Etiopia-Eritrea a cui si aggiunge ora il malessere Oromo... – occorre vigilare su crisi rinascenti, come quella costituzionale della Costa d’Avorio che ha provocato un ammutinamento, o il default del Mozambico che ha trascinato alla crisi armata. Una buona notizia viene dal successo dell’Ecowas (e quindi anche di Alpha Condé) nella gestione della crisi elettorale gambiana. Altro segnale positivo è in Africa centrale dove la Chiesa cattolica ha dato inizio ad una mediazione accettata dalle parti nella Repubblica democratica del Congo. Evitare una nuova grande guerra in Congo è assolutamente necessario. In Africa dell’est rimane aperta la guerra in Sud Sudan, dove sembra che nessuna mediazione sia possibile, e che sta assumendo aspetti da genocidio. L’Unione Africana di domani si prepara dunque a grandi mutamenti, e ne ha bisogno.

*Viceministro degli Affari Esteri

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