lunedì 21 settembre 2015
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Nel 1998 fu papa Wojtyla a rompere il ghiaccio, e fu un avvenimento epocale. Al punto che, a offuscare la visita di Giovanni Paolo II a Cuba, non ci riuscì il contemporaneo esplodere negli Usa della resa dei conti sul caso Levinsky, con Bill Clinton proprio in quei giorni a un passo dall’impeachment. Nel 2012 toccò invece a Benedetto XVI, in un tornate altrettanto epocale nella storia dell’isola, passata quattro anni prima di Castro in Castro, ossia dalle mani di Fidel in quelle di Raúl, e sempre più desiderosa, quasi disperatamente, di uscire dal proprio isolamento senza rinunciare a se stessa. Oggi, a seguire le orme dei suoi due predecessori, a Cuba arriva Francesco. Il primo Papa latinoamericano, connazionale dell’argentino Ernesto “Che” Guevara che, più dello stesso Fidel Castro, incarna il mito stesso di Cuba in un immaginario collettivo che, più che di storia, si nutre di rappresentazioni della storia. Il Papa che, su quella storia, non sulla sua rappresentazione, ha messo il sigillo della mediazione e del dialogo che, dopo decenni, ha avviato quel disgelo tra il gigante statunitense e il fazzoletto di terra caraibico che, finalmente, potrà aiutare Cuba a uscire dal proprio isolamento.Sicuramente si sprecheranno, e già ne abbiamo avuto diversi assaggi, le analisi “politiche” di questa tappa all’Avana di papa Bergoglio. Ma, al di là di tutti i ragionamenti possibili, quello che è immediatamente evidente è come, in qualche modo, questo viaggio chiuda un ciclo in cui la Chiesa – in maniera silenziosa, nascostamente, e spesso pagando un prezzo di grande dolore – ha svolto, restando sempre accanto al popolo, un ruolo fondamentale, aprendone un altro dove quel popolo vuole essere pienamente protagonista. Con la sua identità, la sua fede, la sua vocazione propria.«Cuba è un arcipelago che si affaccia verso tutte le direzioni – ha detto ieri Bergoglio al suo arrivo – con uno straordinario valore come “chiave” tra nord e sud, tra est e ovest. La sua vocazione naturale è quella di essere punto d’incontro perché tutti i popoli si trovino in amicizia, come sognò José Martí, “oltre le strettoie degli istmi e le barriere dei mari”. Questo stesso desiderio fu di san Giovanni Paolo II con il suo ardente appello “affinché Cuba si apra con tutte le sue magnifiche possibilità al mondo e il mondo si apra a Cuba”».Finiti i miti opposti, quello castrista e quello anticastrista, che dal loro scontro hanno costruito quella rappresentazione della storia in cui Cuba è rimasta intrappolata, il cammino che oggi si apre è un futuro completamente proteso verso il nuovo.Un nuovo per niente facile, certo, ma di cui lui, Francesco, venuto per «stare fra voi come missionario della misericordia, della tenerezza di Dio», ha già indicato lo stile: «Consentitemi – ha detto nel radiomessaggio dell’altro giorno – che vi incoraggi a essere anche voi missionari dell’amore infinito di Dio, e che a nessuno manchi la testimonianza della nostra fede, del nostro amore; che il mondo intero sappia che Dio perdona sempre, che Dio sta al nostro fianco, che Dio ci vuole bene». Nel 1989, già crollato il muro e a pochi giorni dalla prima visita del leader sovietico Michail Gorbaciov a papa Wojtyla, l’arcivescovo dell’Avana Jaime Ortega venne a Roma. Intercettato – del tutto per caso – nei vicoletti di Borgo, presso San Pietro, gli venne chiesto se era venuto a invitare il Papa a visitare Cuba. «I tempi non sono maturi», rispose. E aggiunse, pregando allora però di non scriverlo: «Cuba non può prescindere dalla Chiesa, ne ha bisogno, ma per questo deve imparare a fidarsi della Chiesa». È la storia, a ben vedere, degli ultimi trent’anni. Della quale ieri, a Cuba, s’è aperto un nuovo, promettente capitolo.
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