Un prete al suo vescovo: accanto al padre per essere liberi e saldi
giovedì 29 marzo 2018

Padre carissimo, «la nostra sorte è caduta in luoghi deliziosi, magnifica è la nostra eredità». Questa mattina, noi preti ci ritroviamo attorno all’Altare e a lei per ripetere, con una convinzione che speriamo sempre più profonda, le promesse che facemmo nel giorno benedetto della nostra ordinazione benedetta. Desideriamo ardentemente che il nostro “eccomi” somigli a quello di Maria. Totale, gioioso, trasparente. Tra i doni che Dio ha voluto fare agli uomini, la libertà occupa certamente un posto centrale. Dio di noi si fida, Dio ci sfida. A noi si affida. Ci vuole amici, non servi; figli, non schiavi; collaboratori non dipendenti. Ce n’è abbastanza per farsi venire le vertigini. La libertà è un fuoco che illumina e riscalda, ma è anche capace di bruciare e distruggere. Senza la libertà non può esserci vita morale, sentimentale, sociale, ecclesiale. Solo l’uomo libero è capace di intrecciare e alimentare relazioni vere. Da quando abbiamo avuto la grazia di accoglierla come nostro vescovo ci siamo accorti che lei ha puntato a questo. Non sudditi, ma cittadini a pieno titolo. Non un popolo sottomesso ma maturo, credente, credibile. Felice. Non una fede-rifugio dal mondo ma una fede cosciente, liberante, coinvolgente. All’altezza dei tempi che viviamo. Cristo passa. Anche nella nostra Chiesa Cristo passa. Anche nel nostro popolo Cristo passa. Anche grazie a noi, o, forse, nonostante noi, Cristo passa. Nella nostra terra martoriata e bella Cristo passa. E noi non possiamo, non dobbiamo, non vogliamo sbarrargli il passo. Nostro compito è quello di spianare la strada, allargare i varchi, piantare le tende.

Il mosto, però, per diventare vino deve sedimentare e riposare nelle botti. Il chicco di grano deve accettare di morire nella terra buia se vuole trasformarsi in spiga. Mille chicchi marciti diventeranno un campo di grano. Pane da mangiare. Folle da sfamare. Popoli felici. La logica del Vangelo è questa. «Solo il peccato chiude la bocca al predicatore», dicevano i Padri della Chiesa. Vero. Che responsabilità. Che dono. Che mistero. A che altezza da capogiro ci attrae il Signore che amiamo. La libertà, purtroppo, non sempre e non da tutti è vissuta bene, per fare il bene, per volersi bene. Capita non di rado che diventi il pretesto per vivere come meglio ci aggrada. Allora si imboccano sentieri pericolosi. Ci si allontana dalla retta via. Si scandalizzano quei piccoli per i quali Gesù Cristo è morto. Immancabilmente, poi, la vita ti presenta il conto. Conto destinato a essere pagato da tutti, anche dagli innocenti. Ciò che pretendo per me, senza averne il diritto, in un modo o nell’altro, lo sto sottraendo a mio fratello. Siamo un corpo solo, il corpo di Cristo. Ed è del tutto logico che se mi fa male un dente anche la testa, la concentrazione, l’appetito ne risentiranno.

Mai come nel nostro tempo la gente pretende molto dalla Chiesa e da chi questa Chiesa dice di servire. È vero ed è bellissimo. Vuol dire che gli uomini – anche non credenti – sentono che la Chiesa non è, non può essere alla stregua di una qualsiasi associazione, nuova o antica che sia. Anche chi è digiuno di teologia avverte che la Chiesa deve rispecchiare il suo Signore. Gesù è stato vituperato e osannato, umiliato e acclamato, applaudito e messo in croce. Povero e obbediente. La sua sposa non può essere da meno. La Chiesa geme, piange, si lamenta. Gioisce, canta, giubila. Gronda sangue. È ferita, calunniata, applaudita. Per risorgere deve accettare di spogliarsi, morire, scendere negli inferi. Un’altra strada non c’è.

Don Giuseppe De Luca: «Nella vita di Gesù accade il contrario di quello che noi vorremmo che accadesse nella nostra; eppure chi cristiano vuole essere, deve modellare la vita propria sopra la vita di Gesù». La natura sovente si ribella. Perciò occorre essere umili e fissare bene i piedi sulla Roccia per non barcollare nei giorni di tempesta. Padre carissimo, il laicato e il clero di Aversa si stringono attorno al loro Pastore in queste ore di festa che presto diverranno di sofferenza e lutto. Per dirgli la loro gratitudine, per evitare di cadere nell’errore, per imparare a crescere nell’amore. Insieme. Ognuno al suo posto. Senza confusione e senza pretese. Facendo a gara a chi arriva prima per servire e mai per essere servito. Accettando di morire, in molti modi, se il Maestro ce lo chiede, pur di non tradire la parola data, il mandato ricevuto, il popolo che ci fu affidato. «Mentre il creato ascende in Cristo al Padre, nell’arcana sorte tutto è doglia del parto: quanto morir perché la vita nasca! Pur da una Madre sola, che è divina, alla luce si vien felicemente: vita che l’amor produce in pianto, e, se anela, quaggiù è poesia; ma santità soltanto compie il canto», pregava don Clemente Rebora, sacerdote e poeta. Solo la santità completa e da significato al canto della nostra vita. Solo per i santi è consentito provare invidia senza peccar d’invidia. Auguri, padre vescovo.

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