venerdì 13 febbraio 2015
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​«Non ci facciamo illusioni – ha detto dopo un’estenuante maratona notturna Angela Merkel –: rimane molto lavoro da fare. Ma c’è comunque la possibilità reale di cambiare la situazione in meglio». Fu il giornalista tedesco Ludwig von Rochau a coniare nel 1853 il neologismo Realpolitik, così calzante che l’anziano principe di Metternich lo fece proprio e Otto von Bismarck lo mise in pratica con successo. Nessuno oggi meglio di Angela Merkel può ricalcare quella commistione di pragmatismo, fermezza ed elegante scetticismo sulla mutevole natura dell’uomo. Dopo diciassette ore di colloqui nella raggelante reggia del dittatore bielorusso Lukashenko, il quartetto formato dalla cancelliera tedesca, dal presidente francese Hollande, da quello ucraino Poroshenko e dal nuovo "zar di tutte le Russie" Vladimir Putin ha faticosamente partorito una dichiarazione che di fatto conferma e sostiene gli accordi di Minsk dello scorso settembre e stabilisce un cessate il fuoco a partire da domenica.Sul piano diplomatico l’esito del vertice sul futuro dell’Ucraina appare coronato da dignitoso successo. I quattro leader – al netto delle forti tensioni, della matita spezzata fra le dita da Putin, della tentazione tedesca di cedere alla pressioni di chi voleva imporre ulteriori sanzioni nei confronti di Mosca – sono riusciti ad alzarsi dal tavolo dei negoziati «d’accordo sulle questioni principali», come ha dichiarato lo stesso Putin.Ma basta guardare in controluce la velina leggera di questi accordi e subito si scoprono due imbarazzanti verità: la prima è che sul tavolo rimangono insoluti i punti chiave della disputa fra Kiev e i separatisti delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk, a cominciare dallo status delle regioni ribelli per finire con il controllo del confine russo-ucraino. A conferma di uno stallo per ora insormontabile, lo stesso Poroshenko ha confermato che l’accordo di ieri non prevede né il federalismo della zona separatista (come vorrebbe Putin), né l’autonomia. La seconda ruota attorno alla domanda che in queste ore tutti si fanno: un vertice teso e sofferto riconferma di fatto gli stessi punti di quello precedente. Cosa autorizza a pensare che le questioni inevase, gli accordi violati, i voluti malintesi che hanno contraddistinto finora entrambe le fazioni in lotta (con un bilancio dall’inizio delle ostilità che supera le cinquemila vite umane e un popolo di profughi e civili sfollati) possano per magia ricomporsi alla luce di questa Minsk2?La risposta, che per ora tutti evitano di dare, non è incoraggiante: niente ci autorizza a pensare che qualcosa possa cambiare davvero. Piccoli e grandi fatti sono di per sé bastevoli: secondo Kiev, mentre il quartetto negoziava a Minsk una colonna di 50 mezzi corazzati russi avrebbe attraversato il confine ucraino. Per due giorni ancora, è probabile, si continuerà a combattere. Poi non si sa. Tutto rimane ancora vago e resta il sospetto che questa sia solo una tappa del risiko che Putin sta giocando in Ucraina con grande scaltrezza e sangue freddo. Una strategia iniziata con l’annessione della Crimea e proseguita con la militarizzazione del Donbass, che punta nel medio periodo a ottenere la neutralità dell’Ucraina e l’abbandono del suo proposito di aderire alla Nato.Ma c’è un quinto leader – se pure assente dai colloqui di Minsk – ad aver in parte condizionato l’esito del confronto, ed è il presidente Usa Obama. Putin – a Washington lo sanno bene – apprezza e teme al tempo stesso chi minaccia l’uso della forza. Lui per primo è un giocatore spericolato che preferisce l’aggressività alle lungaggini delle diplomazia, anche se la continua allusione al ricorso delle armi finisce nasconde a malapena l’intrinseca debolezza della Russia. Per questo la Casa Bianca ha fatto balenare alla vigilia del vertice l’ipotesi di un invio di armi pesanti a Kiev. Per indurre Putin a sollevare il piede dall’acceleratore, ben conscio che un’escalation militare nel cuore dell’Europa avrebbe esiti disastrosi per tutti. Anche questa è Realpolitik, e in parte ha funzionato. Ma – come raccomanda Merkel – non facciamoci troppe illusioni: probabilmente siamo ancora a metà del guado.
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