martedì 24 novembre 2009
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Caro Direttore,vedo comportamenti sul problema dell’immigrazione che risultano, dal mio punto di vista, assolutamente deleteri, perché ammantati di falsa carità. Sono sicuro che l’apertura indiscriminata agli immigrati segnerà la fine nostra o quella dei nostri figli. Stiamo svendendo la storia e il presente cristiano dell’Italia, causando sconcerto tra i credenti. Perché molti sono così contenti che vi siano già più di quattro milioni di immigrati? Fino a qualche anno fa c’erano discussioni per la presenza di singoli gruppi di famiglie straniere! Certe volte ho l’impressione di una cecità chiusa alla ragione. Vedo un’attenzione – che mi fa quasi paura – più verso la necessità di far costruire moschee, che di evangelizzare e convertire. Ma la mia Chiesa ha ancora il suo spirito missionario o sta abdicando? Chiedo perdono per lo sfogo anche duro, ma prendetelo come la confessione ad alta voce del forte senso di disagio che mi attraversa.

Antonino Ficara

La sua lettera, caro Antonino, esprime idee, sensazioni – e forse paure – diffuse fra tanti credenti. Lei dà legittima voce a timori di cui ha offerto una ruvida lettura lo storico Walter Laqueur nel suo discusso libro «The last days of Europe. Epitaph for an Old Continent» (Thomas Dunne, New York 2007), laddove preconizza che fattori epocali coincidenti quali la lunga recessione dell’economia, un’altrettanto lunga fase di denatalità e la mancata integrazione dell’immigrazione musulmana, soprattutto se non controllata, metteranno a repentaglio l’identità storica e la civiltà stessa dell’Europa. Non c’è dubbio che le cronache quotidiane – inclini a sottolineare più i problemi che le positività della convivenza – ci parlino di gruppi musulmani che rifiutano esplicitamente l’integrazione, che non osservano diritti umani fondamentali, a cominciare da quelli delle donne e della libertà religiosa, e di Paesi ospitanti che ormai rischiano una vera e propria «islamizzazione demografica», come sta avvenendo in Svezia. Ora, su questo punto nodale è chiarissimo il Catechismo della Chiesa cattolica, dove – al capitolo 2241 dedicato all’immigrazione – si legge: «... Le nazioni più ricche sono tenute ad accogliere, nella misura del possibile, lo straniero alla ricerca della sicurezza e delle risorse necessarie alla vita, che non gli è possibile trovare nel proprio Paese di origine. I pubblici poteri avranno cura che venga rispettato il diritto naturale, che pone l’ospite sotto la protezione di coloro che lo accolgono. Le autorità politiche, in vista del bene comune, di cui sono responsabili, possono subordinare l’esercizio del diritto di immigrazione a diverse condizioni giuridiche, in particolare al rispetto dei doveri dei migranti nei confronti del Paese che li accoglie. L’immigrato è tenuto a rispettare con riconoscenza il patrimonio materiale e spirituale del Paese che lo ospita, ad obbedire alle sue leggi, a contribuire ai suoi oneri». E ricordiamo anche le parole del presidente della Cei, cardinale Bagnasco, pronunciate nella Prolusione del 25 maggio scorso: «...L’immigrazione è una realtà magmatica: se non la si governa, si finisce per subirla. E la risposta non può essere solamente di ordine pubblico, anche se è necessario mettere in chiaro diritti e doveri, senza prevedere sconti in nome di un malinteso multiculturalismo che in realtà è solo una giustapposizione tra etnie che non dialogano. Bisogna che scattino invece i meccanismi di una convivenza che, a partire dall’identità secolare del nostro popolo, si costruisce non in base a moduli autoreferenziali e oppositivi, ma, con passo aperto e dinamico, diventa capace di incontrare altre identità, di contagiarsi positivamente secondo modelli interculturali, pur senza cedere ad una logica relativistica e priva di riferimenti marcati... Su questo fronte, per la verità, le parrocchie e i vari gruppi già si muovono, al di là del clamore e con generoso, quotidiano impegno». Sono indicazioni e incoraggiamenti che ci aiutano ad agire con lucidità nel presente e a rafforzare il nostro sguardo, preparando un futuro buono e giusto per i nostri figli e per i figli di coloro che sono venuti a vivere e a lavorare con noi.
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