mercoledì 13 giugno 2018
Alto debito pubblico, pensioni generose, ostacoli all'immigrazione e tensioni sugli spread sono tutti potenziali ostacoli al rilancio delle nascite. Alle famiglie servono stabilità e fiducia
Se l'obiettivo è riempire le culle il Contratto può essere un problema
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Da dieci anni in Italia le nascite sono in calo e nel 2017 è stato toccato il nuovo record negativo: solo 458.151 bebè, 15mila in meno dell’anno prima. Il nuovo ministro della Famiglia e della Disabilità, Lorenzo Fontana, commentando il Bilancio demografico nazionale Istat, ha ribadito, come aveva già fatto in un’intervista ad Avvenire, di volersi impegnare fortemente "per il rilancio demografico, con politiche concrete di sostegno alla natalità". Ma che cosa potrà fare il ministro della Famiglia, a capo di un dicastero senza portafoglio? I margini di manovra non sono pochi, in una dialettica costruttiva tra ministri, e sebbene il premier Giuseppe Conte non abbia mai menzionato la Famiglia nel discorso programmatico alle Camere, il rilancio della natalità è un tema previsto espressamente dal Contratto tra Lega e M5s. Tuttavia ci sono alcuni potenziali ostacoli di carattere economico che andrebbero considerati, perché proprio il Contratto e la natura stessa dell’alleanza di governo contengono elementi che rischiano di ostacolare l’obiettivo di riempire le culle.

È difficile che le nascite possano ripartire, ad esempio, senza una ripresa economica solida e duratura, un calo della disoccupazione, soprattutto giovanile, e un aumento dei tassi di occupazione, in particolare delle donne. Nel mondo occidentale la fecondità, come ha mostrato anche una recente ricerca pubblicata sull’European Journal of Population, è ormai sempre più correlata al reddito e al benessere, ma anche alla disponibilità di due stipendi in casa, alla presenza di servizi per l’infanzia e di pratiche che permettono di armonizzare il tempo per il lavoro e quello per la famiglia. Il Contratto parla di potenziamento degli asili nido e aiuti alle mamme occupate, e l’auspicio è che si possa intervenire al più presto, ma molto dipenderà da come andranno l’economia e l’occupazione. Al momento le previsioni Ue dicono che la crescita del Pil italiano dovrebbe già rallentare all’1,2% nel 2019, dall’1,5% di quest’anno, e per gli analisti ci sono due grandi fattori di ulteriore incertezza: la questione dei dazi commerciali sollevata dagli Usa e la tenuta delle istituzioni europee alla luce del nuovo assetto politico in Italia. La partita della natalità si giocherà anche su questo fronte e sulla capacità del governo di rafforzare la ripresa in un contesto di stabilità.

La tenuta dei conti pubblici è un altro tema che dovrebbe stare a cuore al ministro della Famiglia. Diversi studi hanno mostrato che esiste una correlazione stretta tra alto debito pubblico e bassa natalità, perché l’incertezza sul futuro incide seriamente sulla scelta di avere un figlio. Se si osserva l’andamento del rapporto tra debito e Pil e il numero medio di figli per donna, come mostra un grafico realizzato dal demografo dell’Università Cattolica, Alessandro Rosina, si nota che da metà anni 60 a oggi l’andamento è stato perfettamente speculare e opposto: tanto debito, poche nascite; poche nascite, tanto debito.

L’intenzione di spendere in deficit per mantenere le promesse del Contratto, dunque, può rivelarsi un’arma a doppio taglio. La crisi economica dell’ultimo decennio ha insegnato, e diverse ricerche lo hanno documentato, che possono bastare tensioni sugli spread o la vicinanza di persone che hanno incontrato problemi occupazionali per trasferire insicurezza e far calare il numero di figli. Il ministro dell’Economia Giovanni Tria ha fornito ampie rassicurazioni, tuttavia i timori dei mercati sulla solvibilità dell’Italia dovrebbero essere condivisi anche dal ministro della Famiglia.

Il tema previdenziale è un altro capitolo molto delicato. Diverse analisi, si veda ad esempio un paper della Bce del 2014, hanno indicato che c’è un legame tra l’ampliamento del welfare pensionistico e la riduzione della fecondità, e questo accade in particolare quando gli Stati destinano più risorse per gli anziani che per i giovani. Se si guarda alle riforme previdenziali italiane degli anni 90 – interessante a tal proposito una ricerca di qualche anno fa di Francesco Billari e Vincenzo Galasso – si può vedere che le generazioni cui è stata allungata la vita lavorativa hanno conosciuto un aumento dei tassi di fecondità. In sostanza, la promessa di ammorbidire le regole per il pensionamento può far piacere a chi non è lontano dal traguardo, ma può avere effetti negativi sulle generazioni più giovani, quelle i cui contributi serviranno a finanziare gli sconti della riforma.

L’aspetto più critico riguarda però la questione migratoria. I Paesi con i tassi di fecondità più alti in Occidente devono questo risultato anche al contributo della popolazione immigrata, perché gli stranieri tendono ad avere più figli o quantomeno ad averne subito. Col tempo questo effetto si attenua, tuttavia la dinamica migratoria continua a restare decisiva per tenere alti i tassi di fecondità. Una politica di ostacolo all’immigrazione, o che miri a penalizzare le famiglie di stranieri, può compromettere seriamente l’obiettivo demografico. Per chi ne fa un discorso "identitario" in senso nazionalista ovviamente non è un problema, ma se si vuole quantomeno garantire la sostenibilità del welfare in futuro (oltre alla tenuta del tasso di "umanità" di una popolazione), allora il timore è più che motivato.

La storia recente insegna anche, come suggerito da una ricerca pubblicata sul New York Times e da un’inchiesta dell’Economist che le forze politiche anti-sistema tendono a emergere e affermarsi in contesti caratterizzati da bassa natalità e contrazione della popolazione, territori diventati meno attrattivi e che stanno sperimentando un processo di desertificazione. Andrés Rodiguez-Pose, professore di Geografia economica alla London School of Economics, ha descritto il populismo come «la vendetta dei luoghi che non contano». La questione ha un lato paradossale: uno scenario di sviluppo sostenibile con le culle che tornano a riempirsi dovrebbe in teoria condannare le forze populiste all’estinzione.

Nella ricerca di soluzioni al problema italiano si guarda spesso al modello francese, caratterizzato soprattutto da incentivi fiscali e assegni universali alle famiglie numerose, ma anche a quello tedesco, più orientato a favorire le politiche di conciliazione e i servizi per la cura dei figli, e che ha permesso alla Germania di uscire dalla trappola della fecondità in cui era caduta, come ha ben argomentato Alessandro Rosina su Repubblica. Nel governo sembrano convivere entrambe le visioni. La flat tax ad esempio potrebbe interessare inizialmente le famiglie numerose, mentre nel Contratto si parla espressamente di politiche per la conciliazione lavoro-famiglia e di investimenti in asili nido con interventi a livello locale. L’impostazione culturale al momento sembra richiamare soprattutto l’approccio di Paesi come la Polonia e l’Ungheria. O come la Turchia di Erdogan, dove a rilanciare la natalità sembra essere stato un mix di misure neoliberiste e localiste orientate dall’ispirazione religiosa delle istituzioni politiche, a quanto evidenzia uno studio di O. Aksoy e F. Billari pubblicato sull’American Journal of Sociology.

Quale sarà la politica più efficace per tornare a riempire le culle in Italia? A prescindere dalle decisioni del governo, una buona politica demografica si fonda sempre su un mix condiviso di interventi, ma soprattutto sullo sforzo di garantire condizioni di sviluppo migliori e uniformi su tutto il territorio, assicurando alle famiglie un contesto di stabilità capace di generare fiducia nel futuro. Le nascite ripartono sempre quando i conflitti sono finiti.

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