L'altra intelligenza del potere
sabato 21 gennaio 2023

Avete pensato bene a che cosa vi esponete? – Sì, padre mio, – rispose Sherazade – conosco tutto il pericolo al quale vado incontro. Se muoio, la mia morte sarà gloriosa, ma se riesco nella mia impresa renderò un importante servizio al mio popolo.
Le Mille e una notte

«Il terzo giorno, fattasi splendida, … Ester prese con sé due ancelle. Su di una si appoggiava con apparente mollezza, mentre l’altra la seguiva sollevando il manto di lei» (Ester 5, 1-1a).
Ester, al termine del dialogo a distanza con Mordecai, ha fatto ormai la sua scelta e sfidando il pericolo reale di morte si prepara ora a incontrare il re Assuero, suo marito. Il testo della versione greca (contrassegnato dalle numerazioni 1a,1b,…2b) riporta dettagli che arricchiscono la narrazione, incluso il bel rapporto di confidenza tra Ester e le sue ancelle: «Era rosea nel fiore della sua bellezza: il suo viso era lieto, come ispirato a benevolenza, ma il suo cuore era oppresso dalla paura» (5,1b). L’autore biblico ci descrive il volto e il cuore, il volto che tutti vedrebbero e il cuore che vede solo l’autore, che in questo condivide una prerogativa di Dio, che è il conoscitore dei misteri invisibili dei cuori.

Il re la vede. Ester non era stata da lui chiamata, e sappiamo che quella sua presenza poteva costarle la vita: «Alzato il viso… al culmine della collera la guardò. La regina cadde a terra, in un attimo di svenimento, mutò colore e si curvò sulla testa dell’ancella che l’accompagnava» (5,1d). Quella paura del cuore ora, di fronte ad uno sguardo collerico fulminante del re si trasferisce a tutto il corpo, e così capiamo il (bel) ruolo delle ancelle che accompagnavano la regina. Ma ecco il primo colpo di scena: «Il re Assuero ansioso, balzò dal trono, la prese tra le braccia, fino a quando ella non si fu rialzata, e la confortava con parole rassicuranti, dicendole: “Che c’è, Ester? Io sono tuo fratello; coraggio, tu non morirai, perché il nostro decreto è solo per la gente comune. Avvicìnati!”» (5,1e-1f). Invece della condanna Ester trova in suo marito accoglienza e tenerezza. Anche un re pagano, che il testo descrive come manipolabile, debole e persino crudele può avere un momento di umanità, di pietas, di dolcezza. Lo vediamo tutti i giorni. Perché come i buoni non sono buoni sempre e per sempre, anche i “cattivi” sono capaci di essere più grandi della loro condizione morale.

Forse sta anche qui quell’immagine di Dio non cancellata dal gesto di Caino e dei suoi fratelli – abbiamo dovuto aspettare Assuero per leggere una frase umanamente bellissima: un marito che si definisce “fratello” della moglie, a ricordarci che la fraternità è anche una delle note che il rapporto sponsale acquista. Anche un malvagio può sorprenderci con un gesto di umanità sincera, e guai se non fosse così; ed è in questo dato antropologico e ontologico dove risiede la possibilità di riscatto dal male compiuto, un riscatto che ogni essere umano riceve in dote venendo al mondo, che non viene cancellato dai suoi peccati ed errori e resta vivo fino all’ultimo giorno: «Alzato lo scettro d’oro, lo posò sul collo di lei, la baciò e le disse: “Parlami!”. Allora il re le disse: “Che cosa vuoi, Ester, e qual è la tua richiesta? Fosse pure metà del mio regno, sarà tua”» (5,2-3). Ester si trova di fronte ad un’offerta simile a quella che Erode farà alla figlia danzante di sua moglie Erodiade, che Giuseppe Flavio (Ant. Giud., XVIII, 136) dice si chiamasse “Salomé” – «Qualsiasi cosa mi chiederai, te la darò, fosse anche la metà del mio regno» (Mc 6,23). Ester è l’anti-Salomé, perché non solo la sua richiesta è una richiesta di vita (salvare gli ebrei) e non di morte (la testa di Giovanni Battista), ma perché Ester, diversamente da Salomé, non coglie quel momento favorevole del marito per convincerlo. Eccoci così al secondo colpo di scena del capitolo, quello decisivo.

Ci sono dei momenti quando i potenti maschi sono vulnerabili, e tra questi c’è l’incontro con la bellezza femminile (o comunque con l’eros). Lì il potente si commuove, si addolcisce, promette (quasi) tutto. In genere questi sono i momenti adatti per agire. In genere, ma … non sempre – le donne, le persone, si riconoscono da come vivono questi momenti. «Ester rispose: “Oggi è un giorno speciale per me: se così piace al re, venga egli con Aman al banchetto che oggi io darò”. Disse il re: “Fate venire presto Aman, per compiere quello che Ester ha detto”» (5,4-5). Perché Ester non sfrutta il buon umore del re Assuero – il testo ce lo mostra molto lunatico – e rimanda la sua richiesta al momento del banchetto? Con un esercizio di empatia letteraria possiamo immaginare che Ester capisca o intuisca che quell’attimo di intimità positiva con il marito (che la bacia, le tocca il collo: nel testo ebraico (5,2) ci sono allusioni erotiche abbastanza esplicite) non era il momento propizio (kairos) per la sua richiesta. L’elemento fondamentale è infatti la presenza del primo ministro Aman, colui che aveva voluto lo sterminio e convinto il re a firmare il decreto. Ester sa che è lui la figura chiave, sebbene suo marito gli sia superiore, e quindi vuole che Aman sia presente nel momento cruciale.

E qui emerge un tratto della sapienza delle donne della Bibbia. L’abbiamo incontrata in Abigail che riesce a evitare la guerra di Davide contro il suo maldestro marito, in Noemi che insegna a sua nuora Rut come conquistare il futuro marito Boaz, o nella madre saggia di Tekòa (2 Sam 14,5-7) che convince Davide a ripetere su suo figlio fratricida il “segno di Caino” e così salvarlo. La Bibbia ci mostra spesso una intelligenza diversa delle donne, caratterizzata da uno speciale intuito per la cura delle relazioni e della vita che viene prima delle ragioni, degli interessi, del potere, della religione e forse anche di Dio – Sarah forse non sarebbe partita verso il Monte Moria con Isacco, e avrebbe detto alla voce: “Non puoi essere il Dio vero della vita se mi chiedi di uccidere mio figlio”.

Possiamo leggere in questo episodio di Ester una nuova dimensione di questa intelligenza emotiva e relazionale, particolarmente preziosa quando si ha a che fare con il potere (dei maschi). Lei intuisce che convincere il marito in quel momento di “debolezza” sincera sarebbe stata una mossa sbagliata. Quella promessa non sarebbe stata affidabile, perché il re a contatto diretto con Aman, uomo astuto e dalla personalità forte, non sarebbe stato capace di mantenere fede alla sua parola. Intuisce che parlando subito avrebbe semplicemente fallito la sua missione perché avrebbe sbagliato il momento del suo difficile intervento – “C’è un tempo per ogni cosa” non è solo parte del repertorio del saggio Qoelet, è il cuore della saggezza biblica, incentrata sul giusto rapporto col tempo delle persone e della vita. Ecco allora che Ester capisce che la presenza contestuale di suo marito e di Aman è il momento e la forma giusta della sua richiesta.

Molte azioni di salvezza non raggiungono l’obiettivo perché sbagliamo i tempi e il ritmo. Un errore molto comune nelle dinamiche di potere è pensare che convincere il “più alto in grado” sia sufficiente per raggiungere lo scopo, perché pensiamo che nel “più sia contenuto il meno”. Così facciamo di tutto per arrivare direttamente dal capo (presidente, direttore), cerchiamo di convincerlo con tutti i nostri mezzi, qualche volta ci riusciamo pure. Ma se la persona chiave era un’altra, il processo si arena perché arriva presto il momento in cui chi è stato scavalcato o ignorato troverà il modo, con mezzi più potenti dei nostri, o per far cambiare idea al re o per bloccare il processo. Se la morfologia di un problema ha il suo centro in una (o più) persone precise, per risolverlo devo prima o poi, nella forma e nel momento opportuno, affrontare quelle persone; evitarle o saltarle andando direttamente al vertice, significa quasi inevitabilmente illudersi e avviarsi a una delusione certa.

Troppe buone azioni finiscono male per questa sorta di “ingenuità gerarchica”. Ci illudiamo cioè che il potere segua l’organigramma di quella organizzazione e ci dimentichiamo due verità socio-antropologiche essenziali: a) che un inferiore in grado, che però detiene una parte di potere, nel momento in cui si sente scavalcato fa di tutto per bloccare la decisione presa dal superiore; b) che il “superiore” cui mi sono rivolto ha una sua “struttura di incentivi” molto precisa, dove non contristare i suoi primi collaboratori pesa molto di più della lealtà a quel colloquio occasionale (magari sincero) avuto con me; e così, di fronte al conflitto potenziale che intravvede tra la fedeltà alla parola data a me e il buon funzionamento del suo ufficio, finisce quasi inevitabilmente per preferire il secondo.

Quindi per scegliere il giusto tempo e modo per agire, soprattutto quando a muoverci è il desiderio di bene (queste dinamiche le conoscono molto bene i “figli delle tenebre”), occorre prima studiare e capire la morfologia relazionale del potere, individuare dove sono i veri nodi che sono quasi sempre diversi da quelli dell’organigramma e delle “job description”, e poi, puri come colombe e scaltri come serpenti, agire. Al pari di Ester. Il re e Aman si recano dunque al banchetto della regina, ed ecco un terzo colpo di scena: un nuovo rinvio: «Il re rivolto a Ester disse: “Che cosa c’è, regina Ester? Ti sarà concesso tutto quello che chiedi”. Rispose: “Se ho trovato grazia davanti al re, venga anche domani con Aman al banchetto che io darò per loro”» (5,6-8). Ester, per qualche motivo che ci resta misterioso, intuisce che quel primo banchetto non era il tempo e il momento giusto per parlare.

Al di là delle sue possibili ragioni psicologiche, il ritmo narrativo del racconto guadagna da questo secondo rinvio (non dimentichiamo mai che siamo dentro una forma di romanzo storico). E così ci viene donato un altro bell’episodio con Mordecai protagonista: «Aman era uscito dal re, contento, euforico; ma quando nel cortile della reggia vide Mordecai, si adirò fortemente» (5,9). Mordecai, nonostante la sua crisi dovuta alla presa di coscienza degli effetti gravissimi che il suo gesto di dignità aveva procurato al suo popolo (lo sterminio), è ancora là, a continuare il suo stabat. Non solo non si inchina di fronte ad Aman: questa volta, aggiunge il testo ebraico, al passare di Aman «non si alzò e non tremò», che erano i gesti tipici dei sudditi di fronte ai potenti. Il dolore per gli effetti del suo gesto non lo avevano convinto a interromperlo. L’editto era stato diramato, certo, ma forse c’è un altro messaggio nel gesto di Mordecai: quando si incomincia a resistere per salvare la propria dignità non bisogna fermarsi più, quando si è riusciti ad alzare la testa una volta dobbiamo tenerla alta per sempre.

l.bruni@lumsa.it

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