giovedì 19 novembre 2015
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Caro direttore,  è diventata anche una guerra di passaporti, quella scatenata dagli attacchi di Parigi. Di chi erano? E da dove venivano i terroristi? Il passaporto siriano (forse falso) rinvenuto accanto al corpo di un terrorista ha di nuovo fomentato quanti continuano a considerare valida l’equazione insensata profugo-jihadista. Così di nuovo il fenomeno delle migrazioni, che ci incalza da tutti i fronti, ha assunto il volto del nemico armato di kalashnikov, il male assoluto che colpisce innocenti per il semplice fatto che respirano e sono diversi.  Mentre chi governa l’Europa colpita nelle sue fibre più profonde si interroga su come reagire, mentre i generali studiano le mosse sul campo di battaglia e gli analisti setacciano la rete per comprendere la logica che alimenta i piani di Isis, c’è una pratica di prevenzione, questa sì di 'lunga gittata', che si sviluppa anche se nel cono d’ombra dei media. Un’azione che si spezza in tante altre, in gesti quotidiani semplici, sulla terra battuta dove si sono sistemati alla meno peggio milioni di profughi della guerra siriana scappati in Libano e in Giordania, solo per citare due esempi tra i tanti. È l’impegno di chi tiene aperte scuole e organizza percorsi di educazione per bambini che altrimenti – dopo quattro anni di guerra – non saprebbero leggere ma neanche tenere una matita in mano. L’educazione è l’arma di pace meno spuntata che c’è sulla piazza, silenziosa e potente, a disposizione di chi intende prevenire, o almeno tentare, che giovani generazioni scelgano l’omicidio-suicidio da uomini bomba per dare un senso alla loro esistenza.  Chi da anni, per noi e con noi di Avsi, lavora in Medio Oriente – come Marco Perini o la libanese Jihan Rahal – di questo è convinto non in teoria, ma perché lo tocca con mano ogni giorno: il 59% dei papà nei campi profughi mediorientali è analfabeta; se non si interviene, come sarà possibile pensare che non lascino questa eredità ai loro figli? È poi vero che la deriva violenta del jihadismo non ha solo radici economiche e culturali, ma è anche certo che un bambino, se non gli è data la possibilità di educarsi, diventa preda indifesa di chi arruola alla guerra giovani menti e cuori che vogliono spendere la vita per una causa. Perché tutti, a tutte le latitudini, con la domanda sul 'perché sono al mondo' arrivano a confrontarsi.  Educare non è solo istruire, sebbene insegnare a scrivere e leggere resti uno dei fondamenti indispensabili. L’educazione anche in un campo profughi è l’unico mezzo autentico perché chiunque possa riconoscere nell’altro, nel diverso, un 'tu' con cui entrare in rapporto. Educare significa far capire e sperimentare che l’altro, alla fine, è qualcosa di buono per me, non un ostacolo da eliminare lungo il percorso. Il campo profughi può essere l’inferno: la tensione che scaturisce in condizioni di vita estreme tra famiglie o all’interno della stessa famiglia può togliere il fiato, è il posto generativo di violenza per eccellenza. Mentre la possibilità di imparare anche solo un po’ di inglese e di francese e soprattutto di sperimentare che si può vivere in una comunità di soggetti diversi, incenerisce le premesse di violenza. Rende evidente che la differenza sia qualcosa di positivo, che passa nella carne di chi incrociamo ogni giorno. È esattamente tutto questo che rifiuta il terrorista che uccide innocenti. Dicono che è necessario un intervento militare in forme che rispettino il diritto internazionale e che non scatenino un’ulteriore fase della guerra all’insegna del 'noi (occidentali) e loro (mediorientali)'. Ma anche nell’«interesse» dell’aggressore, come ci ha ricordato in modo audace papa Francesco, oggi c’è soprattutto un’«arma» da distribuire urgentemente e a man bassa: una chance educativa per tutti. Per loro e per noi, senza distinzioni.* Segretario generale Fondazione Avsi
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