Trump ha deciso di vietare anche le cauzioni agli immigrati arrestati
Le nuove linee guida dell’agenzia per i confini sollecitano il personale a fare in modo che gli “indocumentados” fermati restino in cella fino all’espulsione Accorciate pure le istruttorie

Divieto di rilascio. È il nuovo mantra dell’amministrazione Trump nella lotta contro l’immigrazione. A rilanciarlo sono le ultime linee guida dell’agenzia per la sicurezza dei confini (Ice), rese in parte pubbliche dal Washington Post, che istruiscono gli agenti addetti alle procedure di fermo ed eventuale rilascio degli “indocumentados” a negare le udienze finalizzate alla concessione della libertà su cauzione. L’obiettivo, così chiarisce nero su bianco un appunto del direttore a interim dell’Ice, Todd Lyons, è trattenere i migranti in cella «per tutta la durata del procedimento di espulsione». La mossa è ai limiti della legalità: «probabilmente destinata a essere oggetto di contenzioso», a detta dello stesso Lyons. Gli addetti ai lavori sottolineano che è stata chiaramente concepita per indurire la stretta evitando che i migranti rimessi temporaneamente in libertà facciano perdere le proprie tracce.
A renderla (finanziariamente) praticabile è stata la legge di bilancio approvata dal Congresso la scorsa settimana. La cosiddetta “Big, Beautiful Bill” ha stanziato a favore dell’Ice 45 miliardi di dollari per espandere la capacità di detenzione fino a quasi 100mila posti letto. Quasi il doppio di quelli attuali considerato che, a fine giugno, gli immigrati arrestati e in attesa di essere deportati erano 58mila. L’agenzia riceverà anche 14 miliardi di dollari per implementare la flotta dei mezzi utilizzati per raid ed espulsioni.
Altri fondi sono stati destinati ad assumere e formare 10mila nuovi agenti oltre che a incentivare la carriera di chi è già in servizio. Miliardi a pioggia anche per aggiornare la tecnologia in dotazione al personale e incoraggiare contratti di collaborazione con gli enti statali. E non è tutto. L’Ice ha approfittato del documento per fare chiarezza sulla tempistica dei rimpatri alla luce della sentenza della Corte Suprema che, lo scorso 23 giugno, ha legittimato operazioni “lampo” anche a costo di comprimere gli spazi in cui contestarli. L’ordine è deportare «immediatamente», senza nessun preavviso, gli immigrati destinati ai Paesi (non quelli di origine) che hanno offerto «garanzie diplomatiche» di sicurezza. Le persone in partenza verso nazioni che ne sono sprovviste, per esempio il Sud Sudan che ha già ricevuto un carico di otto persone, riceveranno invece una comunicazione in anticipo: minimo sei, massimo 24 ore prima della partenza. In questo arco temporale, gli verrà offerta la «ragionevole possibilità» di parlare con un avvocato ed essere sottoposti a un accertamento finalizzato a valutare l’eventuale diritto alla protezione umanitaria. Le associazioni denunciano che un’istruttoria così veloce, per di più gestita da magistrati sempre più allineati alla Casa Bianca (17 giudici per l’immigrazione sono stati già licenziati «senza giusta causa»), moltiplica il rischio che i migranti possano finire in contesti che non escludono persecuzioni e torture. Proprio ieri, il Dipartimento per la Sicurezza Interna ha fatto sapere di aver inviato cinque persone, originarie di Vietnam, Giamaica, Cuba, Yemen e Laos, a Eswatini, una monarchia (piccola e assoluta) dell’Africa meridionale additata dalle Ong per violazione dei diritti umani.
Altri fondi sono stati destinati ad assumere e formare 10mila nuovi agenti oltre che a incentivare la carriera di chi è già in servizio. Miliardi a pioggia anche per aggiornare la tecnologia in dotazione al personale e incoraggiare contratti di collaborazione con gli enti statali. E non è tutto. L’Ice ha approfittato del documento per fare chiarezza sulla tempistica dei rimpatri alla luce della sentenza della Corte Suprema che, lo scorso 23 giugno, ha legittimato operazioni “lampo” anche a costo di comprimere gli spazi in cui contestarli. L’ordine è deportare «immediatamente», senza nessun preavviso, gli immigrati destinati ai Paesi (non quelli di origine) che hanno offerto «garanzie diplomatiche» di sicurezza. Le persone in partenza verso nazioni che ne sono sprovviste, per esempio il Sud Sudan che ha già ricevuto un carico di otto persone, riceveranno invece una comunicazione in anticipo: minimo sei, massimo 24 ore prima della partenza. In questo arco temporale, gli verrà offerta la «ragionevole possibilità» di parlare con un avvocato ed essere sottoposti a un accertamento finalizzato a valutare l’eventuale diritto alla protezione umanitaria. Le associazioni denunciano che un’istruttoria così veloce, per di più gestita da magistrati sempre più allineati alla Casa Bianca (17 giudici per l’immigrazione sono stati già licenziati «senza giusta causa»), moltiplica il rischio che i migranti possano finire in contesti che non escludono persecuzioni e torture. Proprio ieri, il Dipartimento per la Sicurezza Interna ha fatto sapere di aver inviato cinque persone, originarie di Vietnam, Giamaica, Cuba, Yemen e Laos, a Eswatini, una monarchia (piccola e assoluta) dell’Africa meridionale additata dalle Ong per violazione dei diritti umani.
La stretta sempre più dura contro i migrati costringe la società civile e religiosa che l’oppone a reinventare la resistenza. La diocesi cattolica di El Paso, al confine tra Texas e Messico, offre workshop online – “Conosci i tuoi diritti” – per fornire consulenza a quanti hanno paura di uscire di casa per fare la spesa o andare in chiesa. «La parola giusta non è “paura” ma terrore», sottolinea Mark Seitz, il vescovo alla guida della comunità. Qui, dove invalicabili non sono più neppure scuole e chiese, l’Hope Border Institute ha cominciato anche ad aiutare i migranti a pianificare i ritorni volontari nei Paesi di origine. In sicurezza. La scorsa settimana, il presidente Donald Trump ha incoraggiato gli agenti dell’Ice e i militari dispiegati a contenere le rivolte contro le sue misure, come quelle di Los Angeles, «a usare qualsiasi mezzo» per continuare a fare il proprio (sporco) lavoro.
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