Stato di Palestina, i tanti sì e i pochi no. E Trump parlerà contro il globalismo
di Redazione
Nella notte il riconoscimento di un'altra decina di Paesi. L'Italia: sì, ma non ora. Attesa per il discorso del presidente Usa, che si prepara ad attaccare le istituzioni internazionali

La storia, qualche volta, fa rima con se stessa. Le parole di Mark Twain sembravano aleggiare ieri in una Manhattan blindata per la “settimana clou” dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, a otto decenni dalla sua creazione. La prima volta, il 10 gennaio 1946, i delegati dei 51 Paesi firmatari della Dichiarazione di San Francisco si riunirono nella Methodist City Hall di una Londra acciaccata dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale. E, proprio per evitare un eccesso di imbarazzo alla nazione ospite, si espunse dall’agenda ufficiale la “questione palestinese”, ancora sotto mandato britannico. Henry Truman, tra i principali promotori della nuova architettura multilaterale sull’onda del predecessore Franklyn Delano Roosvelt, voleva evitare di trasformare la riunione inaugurale in una bagarre.
Il dossier fu affidato a un apposito Comitato che, l’anno successivo, avrebbe elaborato il “piano di partizione”: il rifiuto degli Stati arabi ad accettarlo avrebbe inaugurato il ciclo tuttora in corso delle guerre mediorientali. Ottant’anni dopo, nel pieno del più cruento capitolo del conflitto, la Palestina è tornata là dove tutto era iniziato, all’Onu, fisicamente trasferito a New York, nonostante gli sforzi del nuovo padrone di casa – gli Stati Uniti di Donald Trump – per eludere la questione.
Paradossalmente, a catapultarla a Palazzo di Vetro, è stato il Regno Unito con l’annuncio del riconoscimento di domenica, seguito da Canada, Australia e Portogallo. Belgio, Francia, Finlandia, Lussemburgo, Malta, Nuova Zelanda, San Marino e principato di Monacohanno deciso di aspettare il termine della Conferenza internazionale co-organizzata da Parigi e Riad che si è protratta fino a tarda notte. In una dichiarazione congiunta, proprio Francia e Arabia hanno spiegato che «qualsiasi forma di annessione» della Cisgiordania a Israele - ventilata da Tel Aviv come risposta ai nuovo riconoscimenti della Palestina, ndr) è una linea rossa» e il rilascio di tutti gli ostaggi di Hamas a Gaza «è una priorità assoluta».
La posizione dell'Italia è diversa: il ministro Tajani, intervenuto nella notte italiana a New York, ha ribadito che l'Italia sostiene «con forza il sogno dei palestinesi di avere uno Stato e continuerà a supportare l'autorità palestinese nella sua azione», con la convinzione che «la regione deve rinascere con una Gaza libera da Hamas e riunificata con la Cisgiordania, sotto un'Autorità palestinese rafforzata e riformata». Perché la soluzione a due Stati possa riuscire, ha quindi spiegato, «è fondamentale soddisfare le esigenze di sicurezza di israeliani e dei palestinesi» per poter garantire la pacifica coesistenza. Questa - ha ribadito - «è l'unica soluzione per assicurare un futuro di pace e prosperità nel Medio Oriente» ma per arrivarci «è cruciale raggiungere la liberazione degli ostaggi e assicurare il libero accesso degli aiuti umanitari». Nella notte ha parlato anche la presidente della Commissione Ursula von der Leyen: «La nostra bussola è la soluzione a due Stati», ha detto, aggiungendo: «L'unico piano di pace realistico si basa su due Stati: con un Israele sicuro, uno Stato palestinese vitale e la piaga di Hamas eliminata».
La strada dunque è segnata. Con gli ultimi dodici Paesi, la maggioranza del mondo concorda nel definire la Palestina una realtà statuale.
Questo non ha il potere di renderla tale. Nemmeno muta lo status di semplice osservatore all’Assemblea e non di membro effettivo. Si tratta, però, ne è convinto Emmanuel Macron e lo ha sottolineato nell’intervista alla Cbs, «dell'unico modo per fornire una soluzione politica a una situazione che deve cessare». Di certo, enfasi a parte, è uno strumento di forte pressione nei confronti di Israele, come dimostra la dura reazione del governo di Benjamin Netanyahu. Dopo aver ribadito che «uno Stato palestinese non ci sarà mai», il premier è apparso più determinato che mai a portare avanti l’offensiva in atto a Gaza City. Determinante in questa ostinazione il sostegno dell’attuale Amministrazione Usa che, appena la settimana scorsa, ha imposto il veto a una risoluzione per il cessate il fuoco nella Striscia.
Il presidente Trump si è pronunciato più volte contro ogni ipotesi di riconoscimento. In reazione all’ondata dei riconoscimenti, anzi, ha negato il visto alla delegazione palestinese e al presidente dell’Autorità nazionale, Abu Mazen, collegato online. Tale atteggiamento, però, rischia ci minare uno dei pilastri della sua politica mediorientale: gli Accordi di Abramo. Le nazioni arabe, Riad in testa, aprono a una normalizzazione dei rapporti con Israele solo in cambio del rilancio della soluzione dei due Stati. E questa passa, volente o nolente, per la formalizzazione della Palestina. In questo senso, può essere letta la riunione di Trump, prevista per oggi, a margine dei lavori del summit, con i leader di Arabia Saudita, Turchia, Emirati, Giordania, Indonesia, Egitto, Pakistan e Qatar.
Con quest’ultimo, in particolare, i rapporti sono tesi dopo il blitz israeliano contro i vertici di Hamas a Doha del 9 settembre. Eppure – sostengono fonti vicine al negoziato – la dirigenza qatarina non avrebbe rinunciato al ruolo di mediatore. Anzi, proprio nel faccia a faccia di oggi, dovrebbe consegnare una lettera di Hamas al presidente Usa in cui il gruppo armate propone una tregua di 60 giorni in cambio del rilascio della metà degli ostaggi. Potrebbe, però, trovarsi di fronte l’ormai usuale muro di gomma. In ogni caso, il vertice è una conferma del “metodo Trump”, determinato a puntare sulle relazioni “particolari”, bypassando platealmente i consessi multilaterali.
Un approccio confermato alla vigilia del discorso odierno a Palazzo di Vetro, La portavoce, Karoline Leavitt, ha anticipato l’intenzione del capo della Casa Bianca di riunirsi separatamente con l’Ue e Volodymyr Zelensky nonché di attaccare, nel proprio intervento, «le istituzioni globaliste» , “colpevoli” di avere «significativamente compromesso l'ordine mondiale, il presidente, dunque, «spiegherà la sua visione del mondo semplice e costruttiva». Non sarebbe la prima volta. Farlo, però, proprio in occasione dell’ottantesimo anniversario suona alquanto bizzarro. È evidente che la ricorrenza cada in una delle congiunture più difficili per le Nazioni Unite. Lo ha ammesso lo stesso Segretario generale, António Guterres: «Siamo nel mirino come mai prima d’ora». Dopo i saluti di quest’ultimo e le forme di rito di ieri, da oggi la “Settimana dei leader” rischia di diventare cartina di tornasole della crescente conflittualità internazionale. E della fatica da parte della diplomazia a riparare le fratture. Come da tradizione decennale, prima del capo della Casa Bianca, parlerà il presidente brasiliano, Luiz Inácio Lula da Silva che, negli ultimi mesi, determinato a non piegarsi alle pressioni del tycoon. Il casus belli è stato il processo e la successiva condanna dell’ex capo di Stato Jair Bolsonaro, emule e alleato di Trump. Quest’ultimo aveva intimato al Brasile di fermare la causa e per convincerlo ha aumentato i dazi sulle importazioni di oltre il 50 per cento. Ciò non ha impedito che la Corte Suprema giudicasse colpevole il leader dell’ultradestra mentre Lula ha ribadito l’indipendenza della magistratura. Fra i due non è previsto alcun incontro ma il duello a distanza sembra destinato a proseguire a Palazzo di Vetro. Appena ieri gli Usa hanno sanzionato l'avvocato Viviane Barci de Moraes, moglie del giudice Moraes, principale accusatore di Bolsonaro.
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