Quei 400 operatori umanitari uccisi nel 2025, mentre il mondo va in pezzi
di Redazione
Il 2025 si sta rivelando un anno di violenza-record contro chi è impegnato nella protezione dei civili. Il sistema è sotto attacco. E la comunità internazionale sembra incapace di incidere

Ogni anno, in occasione della Giornata mondiale dell’aiuto umanitario, ci fermiamo un attimo, per onorare coloro che hanno perso la vita mentre prestavano servizio e coloro che continuano ad essere presenti, giorno dopo giorno, in prima linea nelle zone di crisi. Non si tratta di cerimonie. O di applausi. Si tratta di testimoniare il coraggio e di stare al fianco di coloro che scelgono la compassione quando tutto intorno a loro sta cadendo a pezzi.
Ma quest’anno è diverso. Più pesante. Il dolore è più forte, non perché le crisi in Gaza, Sudan, Repubblica Democratica del Congo, Ucraina, Myanmar o Haiti siano nuove. Non lo sono. Ma la violenza è aumentata oltre ogni immaginazione. La portata, onestamente, è sconcertante. Non stiamo solo assistendo alla sofferenza, stiamo assistendo al lento disfacimento dei principi stessi che dovrebbero proteggere i civili. Eppure, gli operatori umanitari continuano a presentarsi al lavoro. In questo giorno, quindi, rendiamo omaggio agli oltre 400 operatori umanitari che hanno perso la vita, o sono rimasti gravemente feriti, solo nel 2025, il 95% dei quali erano lavoratori locali, un record sconfortante e un monito che ci ricorda i rischi che corrono coloro che sono più vicini alla crisi.
Questo giorno ci ricorda che dobbiamo loro più del semplice riconoscimento. Dobbiamo loro azioni concrete. Il sistema umanitario viene smantellato ogni giorno proprio davanti ai nostri occhi. Gaza è diventata una trappola mortale mascherata da aiuto umanitario. I signori della guerra sudanesi hanno interrotto gli aiuti mentre il mondo sta a guardare. Le bande di Haiti fanno legge e la comunità internazionale è incapace di agire. Nella Repubblica Democratica del Congo, milioni di persone fuggono mentre i donatori tagliano i fondi e se ne vanno in silenzio. La giunta militare del Myanmar affama il proprio popolo e nessuno la ferma. Lo Yemen sta morendo lentamente, dimenticato. La Corte penale internazionale viene punita per aver perseguito i criminali di guerra. L’Unione Europea esita e devia l’attenzione. E il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, paralizzato, ha imposto il veto e ha taciuto.
Questi non sono solo fallimenti, sono scelte. I governi stanno abbandonando le leggi che hanno scritto. I civili vengono lasciati morire. E gli operatori umanitari vengono lasciati a raccogliere i pezzi. Il messaggio a questo punto è chiaro: le norme volte a proteggere i civili vengono violate in modo sistematico e senza un’azione concreta, non sopravviveranno. E se da un lato i governi sono tentati di cedere allo status quo, dall’altro le organizzazioni umanitarie ricordano ogni giorno, attraverso il loro lavoro, che i principi umanitari non sono ideali astratti, sono la differenza tra la vita e la morte. Questi principi vivono attraverso le persone. Persone reali. Medici, infermieri, assistenti sociali, leader di comunità, gruppi religiosi. Spesso non retribuiti. Spesso non riconosciuti. In luoghi come il Sudan, dove intere comunità sono state sfollate, sono queste persone che rimangono, anche quando i riflettori si spengono.
Ma i principi da soli non sfamano le famiglie. Gli aiuti sì. Quando sono consentiti. Quando sono finanziati adeguatamente. E gli aiuti non sono beneficenza. Sono infrastrutture. Sono stabilità.
Abbiamo visto che funziona. In Sud Sudan, gli aiuti hanno contribuito a scongiurare la carestia e a mantenere in vita i fragili negoziati di pace. In Bangladesh hanno stabilizzato la crisi dei Rohingya. In Africa occidentale hanno impedito che l’Ebola diventasse una catastrofe globale. In Siria e in Turchia hanno evitato nuovi sfollamenti dopo i terremoti. In Ucraina hanno contribuito a preservare la società civile sotto assedio.
Ma il sistema è ora sotto pressione a causa dei tagli dei fondi per gli aiuti da parte dei governi, costringendo gli operatori umanitari a scelte impossibili. Attualmente mancano all’appello oltre 38 miliardi di dollari per gli aiuti umanitari non versati dai paesi donatori, ma necessari nei diversi scenari di crisi globali. Per adattarsi a questa nuova realtà il settore umanitario è consapevole che deve riformarsi, e un cambiamento appare più urgente di tutti: mettere le comunità locali al centro della risposta umanitaria. Quando sono le popolazioni locali a guidare gli interventi, attingendo alle proprie conoscenze e reti, si compie un passo essenziale per colmare il divario di risorse, ma i finanziamenti restano però cruciali. Quando i sistemi umanitari crollano, l’instabilità dilaga; quando le comunità vengono abbandonate, l’estremismo occupa il vuoto; quando si nega la dignità, la fiducia si erode e ricostruirla richiede generazioni. Ogni dollaro speso oggi in aiuti umanitari ne risparmia molti di più in futuri interventi militari, crisi dei rifugiati e costi economici.
È un impegno per un mondo basato su regole in cui la solidarietà non è debolezza, ma forza. E a chiunque si chieda se questo lavoro sia ancora importante, la risposta è sì. Lo è. È una vera espressione di giustizia, solidarietà e umanità. Fare ciò che è giusto non è solo una questione di politica, è una promessa. Una promessa di continuare a essere presenti, anche quando il mondo si gira dall’altra parte.
Ma quest’anno è diverso. Più pesante. Il dolore è più forte, non perché le crisi in Gaza, Sudan, Repubblica Democratica del Congo, Ucraina, Myanmar o Haiti siano nuove. Non lo sono. Ma la violenza è aumentata oltre ogni immaginazione. La portata, onestamente, è sconcertante. Non stiamo solo assistendo alla sofferenza, stiamo assistendo al lento disfacimento dei principi stessi che dovrebbero proteggere i civili. Eppure, gli operatori umanitari continuano a presentarsi al lavoro. In questo giorno, quindi, rendiamo omaggio agli oltre 400 operatori umanitari che hanno perso la vita, o sono rimasti gravemente feriti, solo nel 2025, il 95% dei quali erano lavoratori locali, un record sconfortante e un monito che ci ricorda i rischi che corrono coloro che sono più vicini alla crisi.
Questo giorno ci ricorda che dobbiamo loro più del semplice riconoscimento. Dobbiamo loro azioni concrete. Il sistema umanitario viene smantellato ogni giorno proprio davanti ai nostri occhi. Gaza è diventata una trappola mortale mascherata da aiuto umanitario. I signori della guerra sudanesi hanno interrotto gli aiuti mentre il mondo sta a guardare. Le bande di Haiti fanno legge e la comunità internazionale è incapace di agire. Nella Repubblica Democratica del Congo, milioni di persone fuggono mentre i donatori tagliano i fondi e se ne vanno in silenzio. La giunta militare del Myanmar affama il proprio popolo e nessuno la ferma. Lo Yemen sta morendo lentamente, dimenticato. La Corte penale internazionale viene punita per aver perseguito i criminali di guerra. L’Unione Europea esita e devia l’attenzione. E il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, paralizzato, ha imposto il veto e ha taciuto.
Questi non sono solo fallimenti, sono scelte. I governi stanno abbandonando le leggi che hanno scritto. I civili vengono lasciati morire. E gli operatori umanitari vengono lasciati a raccogliere i pezzi. Il messaggio a questo punto è chiaro: le norme volte a proteggere i civili vengono violate in modo sistematico e senza un’azione concreta, non sopravviveranno. E se da un lato i governi sono tentati di cedere allo status quo, dall’altro le organizzazioni umanitarie ricordano ogni giorno, attraverso il loro lavoro, che i principi umanitari non sono ideali astratti, sono la differenza tra la vita e la morte. Questi principi vivono attraverso le persone. Persone reali. Medici, infermieri, assistenti sociali, leader di comunità, gruppi religiosi. Spesso non retribuiti. Spesso non riconosciuti. In luoghi come il Sudan, dove intere comunità sono state sfollate, sono queste persone che rimangono, anche quando i riflettori si spengono.
Ma i principi da soli non sfamano le famiglie. Gli aiuti sì. Quando sono consentiti. Quando sono finanziati adeguatamente. E gli aiuti non sono beneficenza. Sono infrastrutture. Sono stabilità.
Abbiamo visto che funziona. In Sud Sudan, gli aiuti hanno contribuito a scongiurare la carestia e a mantenere in vita i fragili negoziati di pace. In Bangladesh hanno stabilizzato la crisi dei Rohingya. In Africa occidentale hanno impedito che l’Ebola diventasse una catastrofe globale. In Siria e in Turchia hanno evitato nuovi sfollamenti dopo i terremoti. In Ucraina hanno contribuito a preservare la società civile sotto assedio.
Ma il sistema è ora sotto pressione a causa dei tagli dei fondi per gli aiuti da parte dei governi, costringendo gli operatori umanitari a scelte impossibili. Attualmente mancano all’appello oltre 38 miliardi di dollari per gli aiuti umanitari non versati dai paesi donatori, ma necessari nei diversi scenari di crisi globali. Per adattarsi a questa nuova realtà il settore umanitario è consapevole che deve riformarsi, e un cambiamento appare più urgente di tutti: mettere le comunità locali al centro della risposta umanitaria. Quando sono le popolazioni locali a guidare gli interventi, attingendo alle proprie conoscenze e reti, si compie un passo essenziale per colmare il divario di risorse, ma i finanziamenti restano però cruciali. Quando i sistemi umanitari crollano, l’instabilità dilaga; quando le comunità vengono abbandonate, l’estremismo occupa il vuoto; quando si nega la dignità, la fiducia si erode e ricostruirla richiede generazioni. Ogni dollaro speso oggi in aiuti umanitari ne risparmia molti di più in futuri interventi militari, crisi dei rifugiati e costi economici.
È un impegno per un mondo basato su regole in cui la solidarietà non è debolezza, ma forza. E a chiunque si chieda se questo lavoro sia ancora importante, la risposta è sì. Lo è. È una vera espressione di giustizia, solidarietà e umanità. Fare ciò che è giusto non è solo una questione di politica, è una promessa. Una promessa di continuare a essere presenti, anche quando il mondo si gira dall’altra parte.
Direttore umanitario di Caritas Internationalis
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