mercoledì 22 febbraio 2017
I soldati israeliani sono entrati e hanno lasciato 42 ordini di sgombero. Domani dovrà pronunciarsi la Corte Suprema di Gerusalemme
Le ruspe pronte per intervenire a Khan al-Ahmar, villaggio beduino in Cisgiordania tra Gerusalemme e Gerico

Le ruspe pronte per intervenire a Khan al-Ahmar, villaggio beduino in Cisgiordania tra Gerusalemme e Gerico

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Hanno lasciato un foglio davanti a ogni baracca, fermato con una grossa pietra perché il vento non se lo portasse via. Non hanno rivolto uno sguardo, non una parola, ai vecchi, ai giovani, alle donne, ai bambini del villaggio che stavano lì immobili a guardarli, le braccia arrese lungo il corpo. I soldati israeliani hanno sistemato i 42 ordini di demolizione, con scadenza effettiva il 23 febbraio, e se ne sono andati in fretta. È successo domenica.

Il villaggio beduino di Khan al-Ahmar sta sulla strada tra Gerusalemme e Gerico. Cigiordania. Ma in “Area C”, e quindi sotto controllo israeliano (l’“Area A” è sotto controllo, almeno sulla carta, palestinese; l’“Area B” ricade sotto controllo congiunto). Le baracche di questa gente, una ventina di famiglie (più di un centinaio di persone) sono lì da 70 anni. Non avevano chiesto loro di essere cacciati dalla loro terra, il Negev, dopo la nascita dello Stato ebraico.

Non avevano chiesto loro di finire così, a vivere una vita precaria: ultimi dopo gli ultimi. Si sono adattati. Non possono costruire nulla in cemento, perché non ottengono i permessi. Definiscono “case” queste strutture in legno o lamiera senza fondamenta, senza elettricità, senza acqua, senza nulla: polvere in estate, fango d’inverno. Vivono di pastorizia: capre e pecore, ma le aree di pascolo si riducono di anno in anno. Ovunque, intorno, gli insediamenti ebraici, i cui corridoi di collegamento spesso finiscono per inciampare nei loro villaggi. Israele li considera abusivi. I palestinesi per molti anni non li hanno accolti con favore, e cominciano soltanto adesso a capire che, forse, stanno combattendo la stessa battaglia. Ma tant’è.

«Abbiamo parlato con il capo del villaggio, Abu Raid – racconta una missionaria comboniana che presta la sua opra in otto asili in diversi villaggi della Cisgiordania –. Sono persone forti, resilienti, ma adesso hanno davvero paura. Per loro, per i loro figli, la loro educazione». Non sanno che cosa li aspetta. Si parla di un piano israeliano di spostamento forzato che coinvolgerebbe, oltre a Khan al-Ahmar, anche i villaggi di Abu Nawar e Abu Hindi. Ma le premesse non sembrano buone. «Ad Abu Nawar – racconta una fonte sul posto – i soldati fanno continui sopralluoghi, praticamente ogni mezz’ora, armati, minacciosi, a seminare paura e disperazione».

Nel villaggio di Khan al-Ahmar c’è la “Scuola di gomme” fondata nel 2009 dalla Ong Vento di Terra. È una scuola-di-gomme davvero, perché fatta di pneumatici: l’unico modo per tirarla su visti i divieti di costruire in cemento. Accoglie 180 bambini, di Khan al-Ahmar e di tutti i villaggi intorno. Viene gestita dall’Autorità nazionale palestinese, e già i passato è stata minacciata di demolizione. Questa volta rischia di più. Il ministro dell’Istruzione Sabri Saydam ha denunciato il blitz alla scuola, chiedendo un intervento urgente in difesa del diritto all’educazione dei bambini.

Domani la Corte Suprema di Gerusalemme dovrà pronunciarsi sulla sorte del villaggio beduino, scuola compresa. Potrebbe anche decidere di fermare lo sgombero, la demolizione. È già successo, in passato, in altre circostanze. Tutti, lì, ci sperano. Contano su una grande mobilitazione internazionale: un vento forte. Che quei fogli, sotto quelle pietre, li faccia volare via.

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