venerdì 24 dicembre 2010
I predoni trattengono nel deserto del Sinai ancora sei donne. Mentre c'è chi riprende il viaggio, aumentano i problemi per i più poveri. Ibrahim è disperato: ho versato mille dollari per mio cugino, ma non bastano, gli hanno spezzato le mani a sprangate.
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Venti ostaggi sono stati libera­ti mercoledì dall’inferno del Sinai. Ma almeno 15, tra le quali sei donne - tre in stato di gravi­danza - rischiano di restare nelle ma­ni dei predoni e sparire nel nulla. E nelle prossime ore si tenterà di tutto per trovare almeno i danari del ri­scatto delle ragazze. Intanto sulla stampa egiziana appaiono le prime conferme sul terribile traffico di uo­mini in atto nel deserto, notizie smentiscono ancora una volta il go­verno del Cairo. Dunque un mese e­satto dopo la scoperta del mercato di rifugiati africani tra Egitto e Israele, arrivano novità che possono impri­mere una svolta. Le persone rilasciate appartengono al gruppo degli 80 eritrei partiti dalla Li­bia, sequestrati un mese fa da un gruppo di predoni e detenuti in con­dizioni disumane. La notizia è stata data ieri da uno dei prigionieri al fra­tello, un profugo eritreo che vive a Berna, durante la telefonata conces­sa dai sequestratori per chiedere il ri­scatto. «Mi ha detto che è stato completato il pagamento di ottomila dollari per 20 persone– conferma H., il cui fra­tello è nel gruppo partito dalla Libia – che sono state rilasciate. Vengono tutti da Tripoli. Attendiamo la con­ferma del loro arrivo in Israele, ma altri parenti mi hanno detto la stessa cosa». Il tam tam tra nella diaspora in Eu­ropa ribadisce che i pagamenti sono avvenuti via Western union, con il metodo usuale: indirizzati agli inter­mediari segnalati dalla banda via sms al parente pochi minuti prima di ef­fettuare la transazione. Anche H. è riuscito, a prezzo di gran­di sacrifici, a mettere insieme la som­ma richiesta dai banditi. «Non posseggo più nulla. Mio fratel­lo mi ha annunciato che domani do­vrebbe essere rilasciato. Insieme a lui dovrebbero ritrovare la libertà altri o­staggi, tra i quali una donna incinta, venduti ai Rashaida dall’eritreo Fa­swat Mahari, che aveva organizzato il viaggio dalla Libia al Sinai. So che altri pagamenti verranno saldati in queste ore. È il regalo di Natale più bello della mia vita». Ma cresce l’angoscia per la sorte di chi non ha parenti in grado di paga­re. Ibrahim ad esempio ha un cugi­no nel Sinai, vive a Genova con un re­golare permesso di rifugiato politico ed è disperato. «Ho versato lunedì mille dollari per mio cugino ai banditi al Cairo. I se­questratori gli hanno spezzato le ma­ni a sprangate. Però gli ho detto che non posso fare di più. Ieri mi ha det­to che stanno continuando a tortu­rarlo. Non è possibile che nessuno intervenga». Anche don Mosè Zerai, il sacerdote e­ritreo che per primo ha lanciato l’al­larme trenta giorni fa e che da allora ha tenuto i contatti con gli ostaggi fingendosi un parente, conferma, ma non nasconde l’enorme preoccupa­zione per un epilogo tragico. «Non sappiamo che fine faranno le persone che non possono pagare. So­no almeno una quindicina, tra le quali sei donne. Tre sono incinta. Farò l’impossibile per cercare di trovare i soldi per salvare almeno loro, hanno subito troppo e rischiano di finire chissà dove, magari vittime del traf­fico d’organi. Anche se il pagamento del riscatto – conclude amaro il pre­te – alimenterà il traffico di schiavi. I governi e l’Onu hanno chiuso gli oc­chi davanti ai mercanti di uomini». Intanto sul «Daily News Egypt», te­stata indipendente distribuita con l’International Herald Tribune, è comparso il 22 dicembre un articolo che ammette per la prima volta la presenza dei «rifugiati africani» rapi­ti e torturati dai trafficanti per estor­cere riscatti. Il servizio assesta un’al­tra picconata alle tesi del ministro de­gli Esteri egiziano Ahmed Aboul Gheit, il quale ancora sabato negava tutto. Una fonte anonima nel Sinai riferisce di non saper dire quanti so­no i prigionieri. Ne avrebbe visti so­lo 30, ma ammette che il numero cre­sce per i continui arrivi. Soprattutto racconta un fatto avvenuto a fine no­vembre, quando alcuni prigionieri a­vrebbero sottratto le ar­mi ai carcerieri e tentato la fuga. Sarebbero stati catturati dalle guardie di confine dopo uno scon­tro a fuoco che ha provo­cato diversi feriti. Quasi lo stesso racconto fatto dagli ostaggi a fine no­vembre a don Zerai sul blitz conclusosi tragica­mente con l’uccisione a bastonate di sei fuggia­schi. Un resoconto che, un mese dopo l’allarme lanciato da don Mosè, rende insostenibile la po­sizione del Cairo. Che fi­ne hanno fatto i feriti, so­no stati curati negli ospedali egizia­ni? O sono stati riconsegnati ai car­cerieri? Possibile che le guardie di confine non abbiano riferito ai su­periori della sparatoria? Le risposte farebbero crollare il muro di silenzio eretto dalle autorità egiziane attorno al dramma del Sinai
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