giovedì 18 febbraio 2016
Voci disperate della gente di Aleppo accalcata alla frontiera turca. Aziza si è rifugiata nello sperduto villaggio turco di Akcabaglar. Mentre racconta non riesce a trattenere le lacrime... (Nello Scavo)
Aleppo, «è tardi anche per scappare»
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Era il miglior sapone di Aleppo. Le donne lo compravano per ammorbidire e profumare la pelle. Poi hanno cominciato a usarlo per lavare il sangue dalle case e dalle strade». La fabbrica di cosmetici di Fatos e Aziza sfornava migliaia di confezioni al giorno. Aziza ricorda e piange: «La notte non dormo più». Non è per lo stabilimento, che è stato sventrato e saccheggiato. Non è per i risparmi, con cui si sono pagati un passaggio sicuro verso la provincia turca di Hatay. È per i bambini: «Mia figlia è rimasta lì con i nostri due nipotini. All’ultimo momento non ha potuto raggiungerci. Il marito non ha voluto. Lei è cristiana, lui musulmano. E alla madre non è permesso decidere sui figli». Abitavano vicino a una parrocchia greco ortodossa di Aleppo. La chiesa è stata devastata dai cannoneggiamenti. «Ormai non si sa più da dove partono le granate: dai ribelli o dai governativi?». Nello sperduto villaggio turco di Akcabaglar, a metà strada tra la città di Kilis e la frontiera siriana, i residenti sono testimoni diretti degli attacchi ininterrotti delle forze turche contro le posizioni curde in Siria. I reparti militari di Ankara passano da qui a intermittenza. Oramai Erdogan ha smesso di negare, mentre ai turchi di confine stanno per saltare i nervi.  «Se i curdi rispondessero al fuoco puntando nella nostra direzione, che ne sarebbe di noi?», si domanda un vecchio mentre sorseggia un the caldo servito nel tradizionale bicchierino di vetro decorato. Con la guerra alle porte «finiremo anche noi a dovercene andare via, come i siriani». Aziza appena può si attacca al telefono. In una mano il cellulare, nell’altra un rosario. E domanda dei bambini. «Fuori ci sono dei carri armati – le ha raccontato ieri mattina la figlia –, siamo in trappola. È tardi anche per scappare». Devono essere i chiassosi T90 forniti dalla Russia alle redivive divisioni corazzate di Damasco. «I soldati parlano una lingua che non capiamo», ha aggiunto la donna all’altro capo del telefono. Forse sono davvero i russi che tutti temono e Mosca nega di aver inviato via terra. Oppure mercenari, come se ne contano a centinaia in questa guerra dei cinque anni. I siriani superstiti vivono nel terrore. I turchi delle città di confine guardano oltre le alture con timore. Se la paura unisce, a gettare discordia c’è anche la guerra dei numeri, delle notizie da manipolare o diluire. Martedì il generale Igor Konashenkov, portavoce del ministero della Difesa russo, annunciava che i jet dell’aeronautica militare di Mosca dal 10 febbraio hanno compiuto 444 raid aerei, colpendo 1.593 obiettivi dei «terroristi» nelle province di Deir ez-Zor, Daraa, Homs, Hama, Latakia e Aleppo. Sempre Konashenkov la settimana precedente informava che dal 4 all’11 febbraio erano stati effettuati 510 raid contro 1.888 «strutture dei terroristi» sempre nelle medesime aeree. In totale fanno 954 attacchi aerei e 3.481 obiettivi colpiti in poco più di due settimane. Al ritmo di 60 incursioni al giorno, vorrebbe dire già più di mille. A prendere per buona la contabilità del Cremlino, non c’è dubbio che Mosca stia martellando senza tregua, anzi intensificando i bombardamenti proprio dal momento in cui a Ginevra e Monaco si tenta una mediazione. Senza contare i missili lanciati dal Mar Caspio e dai sommergibili nel Mediterraneo. Ma non c’è solo il fronte del nord. La ripresa dei combattimenti tra forze governative e ribelli nel sud della Siria ha lasciato senza casa quasi 50mila civili nel cuore dell’inverno, secondo l’ultimo bilancio delle Nazioni Unite. L’esodo di massa è avvenuto lontano dall’attenzione internazionale, concentrata su Aleppo, nel nord della Siria, dove l’offensiva del governo sostenuta dai radi russi ha fatto fuggire decine di migliaia di persone dalle loro case. Il coordinatore umanitario dell’Onu in Giordania, Edward Kallon, ha detto che l’organizzazione ha allestito nelle ultime due settimane nuovi convogli di aiuti attraverso il confine, fornendo abiti pesanti e riparo a oltre 30mila civili, di cui 7 mila bambini. Secondo i calcoli del Syrian Centre for Policy Research (Scpr), organizzazione ritenuta affidabile e citata dai più autorevoli media internazionali, le persone morte o ferite nei cinque ani di scontri sono ormai l’11,5% dell’intera popolazione: i morti sarebbero saliti a 470.000, contro i 250.000 indicati dall’Onu, che non aggiorna le stime ufficiali da circa 18 mesi.  Aziza e Fatos, intanto, si danno il cambio. Provano e riprovano a chiamare Aleppo. Si alternano come due nonni disperati. Con la bocca pregano e con le mani schiacciano i pulsanti. Niente. «Non rispondono, non c’è linea». Riprovano. Anche stanotte non dormiranno.
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