lunedì 10 gennaio 2022
La leader dell'opposizione democratica è stata ritenuta colpevole di «importazione illegale di walkie-talkie». Deve già scontare altri due anni per violazione delle norme sul Covid
La leader della disciolta Lega nazionale per la democrazia birmana, Aung San Suu Kyi

La leader della disciolta Lega nazionale per la democrazia birmana, Aung San Suu Kyi - Ansa

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L'ex leader del Myanmar, Aung San Suu Kyi, è stata condannata a quattro anni di carcere nell'ultimo sviluppo dei processi contro la ex consigliere di Stato del Paese, oggi retto dalla giunta militare. Tra le accuse contro di lei ci sono il possesso di walkie-talkie in violazione della legge sulle importazioni, e la violazione delle regole contro il Covid-19. Aung San Suu Kyi si trova in stato di detenzione dal colpo di Stato militare del primo febbraio 2021, che ha riportato la giunta militare al potere e deve rispondere di svariate accuse, che nega, e che, sommate, potrebbero comportare pene per oltre cento anni di carcere.
A dicembre, la premio Nobel per la Pace, 76 anni, era stata giudicata colpevole di incitamento alla sovversione e di violazione delle regole contro la diffusione del Covid-19 in quello che era stato definito un « finto processo» dall'Alto Commissario dell'Onu per i Diritti Umani, Michelle Bachelet. Secondo fonti citate dal quotidiano The Irrawaddy, la sentenza pronunciata oggi a porte chiuse dal tribunale speciale di Nayipidaw comprende due anni di carcere per il possesso illegale di walkie-talkie, un anno per il possesso di altri apparecchi e altri due anni per le violazioni delle regole contro il Covid-19, con le prime due condanne da scontare simultaneamente.
Il verdetto è basato sulle visite porta a porta effettuate da Aung San Suu Kyi a membri del suo partito, la Lega Nazionale per la Democrazia, in vista delle elezioni del novembre 2020: il suo schieramento ha ottenuto una netta vittoria dalle urne, contestata, però, dalla giunta militare, che ha citato brogli elettorali, nonostante il parere contrario degli osservatori internazionali. In totale, l'ex leader del Myanmar deve scontare sei anni di carcere, dopo la sentenza del mese scorso a quattro anni di carcere, poi dimezzata. Tra le accuse di cui Aung San Suu Kyi deve ancora rispondere ci sono anche quelle di presunta corruzione e di violazione dei segreti di Stato.
Dura reazione alla sentenza di oggi da parte degli attivisti per i diritti umani. «Il circo di tribunali delle giunta militare di processi segreti su accuse inesistenti riguarda soltanto l'accumulo di maggiori condanne, così che rimanga in prigione a tempo indefinito», ha commentato in una nota il vice direttore per l'Asia di Human Rights Watch, Phil Pobertson. l Comitato norvegese per il Nobel, che assegna il Premio Nobel per la Pace, ha criticato le nuove condanne a carico della deposta leader democratica del Myanmar, Aung San Suu Kyi. «Il Comitato per il Nobel è profondamente preoccupato per la sua situazione», ha detto la presidente del Comitato per il Nobel Berit Reiss-Andersen. «L'ultima sentenza contro Aung San Suu Kyi è politicamente motivata», ha aggiunto.
Dal colpo di Stato militare in Myanmar del primo febbraio scorso, si sono susseguite forti manifestazioni nel Paese, represse duramente dalla giunta militare, che ha colpito manifestanti pro-democrazia, attivisti e giornalisti. Oltre alla premio Nobel per la Pace, più di 10.600 persone sono state arrestate in Myanmar, e almeno 1.300 sono state uccise durante le proteste, secondo il gruppo di monitoraggio Assistance Association for Political Prisoners, citato dalla Bbc. Le informazioni sui processi contro la ex leader del Myanmar e sulle sue condizioni sono scarse: dall'ottobre scorso, la giunta militare in Myanmar ha vietato agli avvocati di Aung San Suu Kyi di parlare con i media, che non hanno avuto accesso in aula al processo di oggi.
Il mese scorso, il capo della giunta militare al potere, il generale Min Aung Hlaing, aveva dichiarato che Aung San Suu Kyi e l'ex presidente Win Myint rimarranno detenuti nel posto in cui attualmente si trovano, indicando che non saranno imprigionati mentre sono in corso i processi contro di loro.

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